Σώμα, θυμήσου όχι μόνο το πόσο αγαπήθηκες,
όχι μονάχα τα κρεββάτια όπου πλάγιασες,
αλλά κ’ εκείνες τες επιθυμίες που για σένα
γυάλιζαν μες στα μάτια φανερά,
κ’ ετρέμανε μες στην φωνή — και κάποιο
τυχαίον εμπόδιο τες ματαίωσε.
Τώρα που είναι όλα πια μέσα στο παρελθόν,
μοιάζει σχεδόν και στες επιθυμίες
εκείνες σαν να δόθηκες — πώς γυάλιζαν,
θυμήσου, μες στα μάτια που σε κύτταζαν·
πώς έτρεμαν μες στην φωνή, για σε, θυμήσου, σώμα.
Corpo, ricorda, e non solo quanto fosti amato,
non soltanto i letti in cui giacesti,
ma anche quei desideri che per te
brillavano chiari negli occhi,
e tremavano nella voce - e qualche
casuale ostacolo li rese vani.
Ora che tutto ormai appartiene al passato,
sembra quasi che a quei desideri
tu ti sia concesso - come brillavano,
ricorda, negli occhi che ti guardavano:
come tremavano nella voce, per te, ricorda, corpo.
Questa poesia di Konstantinos Kavafis si intitola Θυμήσου, Σώμα..., cioè Ricorda, corpo..., e fu scritta nel 1918 - il poeta aveva 55 anni. Se ne leggono moltissime in una splendida edizione elettronica curata dall'Archivio Kavafis - quella riportata sopra ha la traduzione di Paola Maria Minucci, e il testo originale si legge a questa pagina.
Non tanto perchè l'amore si spenga, ma perchè una strana equivoca malìa aleggia in questi versi del più misterioso e affascinante poeta neoellenico del Novecento - per tali motivi pare che in realtà, in questo componimento, non accada nulla, che tutto sia fermo - in fine, pare che il tempo sia sempre stato così, bloccato in equilibrio su uno stallo senza prima né dopo.
Forse è questa l'immagine più propria che la poesia di Kavafis vuole ottenere: se nella interpretazione "esterna" dei suoi poemi si comprendono facilmente le suggestioni di una decadenza vissuta nella terra par exellence di quest'atmosfera in Occidente, Alessandria d'Egitto - la patria dell'Ellenismo che viaggiava controcorrente già con i satrapi e la Biblioteca - in quella interpretazione "interna" che si può azzardare, l'omosessualità esplicitamente coltivata e dichiarata di Kavafis si sublima in una posa, spesse volte ripetuta nei suoi versi - quella del kouros in posizione stante, muscoloso ma senza esibizione, dal sorriso enigmatico, languido nella sua forza, non femmineo ma nemmeno erculeo.
Certo, tornano infinite volte le tombe, le ispirazioni degli epitimbi bizantini, quelli dell'Antologia Palatina - come tornano pure gli amori che lì si consumano e i profumi e le luci; ma in alcuni componimenti più nascosti, torna non tanto la lascivia, la brama per un piacere che sfuggirà comunque e di cui si vuole rallentare la caduta nel retrogusto amaro, quanto un'arcaica ricerca.
Non si tratta di una vana regressio alla purezza - a cosa servirebbe, ad Alessandria d'Egitto, se non ad annacquare i lunghi caffè e gli sguardi umidi di caldo e desiderio? - quanto di rievocare, sapendolo, Polimede di Argo più che Skopas o anche Kritios. Evocare un antico veramente senza necessità di mostrare la sua forza - una linfa non soggiogata a dolcezze o effeminatezze - più che l'ambiguo mestiere di chi sa di poter scambiare luci ed ombre, levigare muscoli egli efebi, e poi mascherarli sotto la brillantezza di un capo reclinato, di un salto di danza.
Il Kavafis noto è quello che mostra il suo essere necessario posto in Alessandria; quello notevole, illumina un orizzonte più lungo, azzurrino, dove i corpi soltanto, ormai senza anima, ricordano i piaceri che hanno avuto e donato, ora che proprio un tempo inutilmente trascorso li priva forse anche della memoria; e se l'anima di una effimera coppia di amanti non rimane, è bene preservare la memoria senza inganni, senza pensare di essersi concessi al piacere - bisogna gustare anche l'amaro che il dolce lascia in fondo al palato.
όχι μονάχα τα κρεββάτια όπου πλάγιασες,
αλλά κ’ εκείνες τες επιθυμίες που για σένα
γυάλιζαν μες στα μάτια φανερά,
κ’ ετρέμανε μες στην φωνή — και κάποιο
τυχαίον εμπόδιο τες ματαίωσε.
Τώρα που είναι όλα πια μέσα στο παρελθόν,
μοιάζει σχεδόν και στες επιθυμίες
εκείνες σαν να δόθηκες — πώς γυάλιζαν,
θυμήσου, μες στα μάτια που σε κύτταζαν·
πώς έτρεμαν μες στην φωνή, για σε, θυμήσου, σώμα.
Corpo, ricorda, e non solo quanto fosti amato,
non soltanto i letti in cui giacesti,
ma anche quei desideri che per te
brillavano chiari negli occhi,
e tremavano nella voce - e qualche
casuale ostacolo li rese vani.
Ora che tutto ormai appartiene al passato,
sembra quasi che a quei desideri
tu ti sia concesso - come brillavano,
ricorda, negli occhi che ti guardavano:
come tremavano nella voce, per te, ricorda, corpo.
Questa poesia di Konstantinos Kavafis si intitola Θυμήσου, Σώμα..., cioè Ricorda, corpo..., e fu scritta nel 1918 - il poeta aveva 55 anni. Se ne leggono moltissime in una splendida edizione elettronica curata dall'Archivio Kavafis - quella riportata sopra ha la traduzione di Paola Maria Minucci, e il testo originale si legge a questa pagina.
Non tanto perchè l'amore si spenga, ma perchè una strana equivoca malìa aleggia in questi versi del più misterioso e affascinante poeta neoellenico del Novecento - per tali motivi pare che in realtà, in questo componimento, non accada nulla, che tutto sia fermo - in fine, pare che il tempo sia sempre stato così, bloccato in equilibrio su uno stallo senza prima né dopo.
Forse è questa l'immagine più propria che la poesia di Kavafis vuole ottenere: se nella interpretazione "esterna" dei suoi poemi si comprendono facilmente le suggestioni di una decadenza vissuta nella terra par exellence di quest'atmosfera in Occidente, Alessandria d'Egitto - la patria dell'Ellenismo che viaggiava controcorrente già con i satrapi e la Biblioteca - in quella interpretazione "interna" che si può azzardare, l'omosessualità esplicitamente coltivata e dichiarata di Kavafis si sublima in una posa, spesse volte ripetuta nei suoi versi - quella del kouros in posizione stante, muscoloso ma senza esibizione, dal sorriso enigmatico, languido nella sua forza, non femmineo ma nemmeno erculeo.
Certo, tornano infinite volte le tombe, le ispirazioni degli epitimbi bizantini, quelli dell'Antologia Palatina - come tornano pure gli amori che lì si consumano e i profumi e le luci; ma in alcuni componimenti più nascosti, torna non tanto la lascivia, la brama per un piacere che sfuggirà comunque e di cui si vuole rallentare la caduta nel retrogusto amaro, quanto un'arcaica ricerca.
Non si tratta di una vana regressio alla purezza - a cosa servirebbe, ad Alessandria d'Egitto, se non ad annacquare i lunghi caffè e gli sguardi umidi di caldo e desiderio? - quanto di rievocare, sapendolo, Polimede di Argo più che Skopas o anche Kritios. Evocare un antico veramente senza necessità di mostrare la sua forza - una linfa non soggiogata a dolcezze o effeminatezze - più che l'ambiguo mestiere di chi sa di poter scambiare luci ed ombre, levigare muscoli egli efebi, e poi mascherarli sotto la brillantezza di un capo reclinato, di un salto di danza.
Il Kavafis noto è quello che mostra il suo essere necessario posto in Alessandria; quello notevole, illumina un orizzonte più lungo, azzurrino, dove i corpi soltanto, ormai senza anima, ricordano i piaceri che hanno avuto e donato, ora che proprio un tempo inutilmente trascorso li priva forse anche della memoria; e se l'anima di una effimera coppia di amanti non rimane, è bene preservare la memoria senza inganni, senza pensare di essersi concessi al piacere - bisogna gustare anche l'amaro che il dolce lascia in fondo al palato.
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