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mercoledì 23 maggio 2012

Dove va la "democrazia" di Lucio Caracciolo e Giovanni Sartori?

L'ultimo numero di Limes — intitolato A che serve la democrazia — ha un editoriale illuminante come non mai: La democrazia dopo la democrazia.
Il ragionamento che vi si compie è importante, dal punto di vista teorico non troppo impegnativo, ma senza dubbio forte e teso nello scontro con la realtà, nella presa di posizione riguardo il tempo e le situazioni che viviamo.
Con una pointe anche linguistica molto decisa, Caracciolo afferma che la prova della democrazia è sempre stata piuttosto funzionale che definitoria: vale a dire che, specie nel Novecento, le forme di governo sono state descritte come democratiche soltanto in un dopo logico, attraverso i risultati che hanno portato nella vita degli stati e dei cittadini, e non in un piano astratto, in un prima teorico rispetto alle applicazioni.
Nume tutelare di questo ragionamento sarebbe, non dichiarato, quel Giovanni Sartori autore di Democrazia e definizioni (Sartori 1957): non sempre è necessario (e nemmeno possibile) individuare le ascendenze intellettuali, e Limes è una rivista "militante" piuttosto che "accademica". Ma mi ha colpito una somiglianza che la dice lunga sul dibattito consustanziale alla democrazia già nel suo nascere fra i Greci.
Nella "Conclusione" del suo saggio, Sartori scrive
Fatte le debite analogie, alcune analogie potrebbero valere anche per noi. Così come Hobbes voleva a tutti i costi la pace, oggi si vuole, costi quel che costi, un posto sicuro, un reddito assicurato: e a questo fine siamo di nuovo disposti ad affidare la nostra sorte a chi promette di avere cura di noi. [...] Democrazia formale e democrazie reale, libertà astratta e libertà concreta, giustizia formale e giustizia vera, tutti questi passaggi non hanno più gran senso, e tutte queste formule non sono che fuochi di artificio. Il caso è molto più semplice. Non è la libertà "reale" che ci interessa, è semplicemente che non apprezziamo più la libertà come tale. Non è la democrazia "sostanziale" che ci preme, è semplicemente che la democrazia, in sé e per sé, non ci dice molto. Siamo sazi di libertà e di democrazia perché noti nulla cupido. Tuttavia non sono affatto sicuro che questa sia la diagnosi giusta. Non è che la scelta di valore sia stata fatta: è piuttosto che la si fa senza saperlo e soprattutto senza volerlo. Il fatto che si parli tanto di "vera" libertà e di "vera" democrazia sembra suggerire che i valori ultimi e le credenze di fondo della civiltà occidentale sono e restano profondamente radicate. Il che legittima il sospetto che stiamo assistendo non tanto a una mutazione di valori, ma a una operazione di aggiramento di quei valori. E in tal caso la crisi della civiltà liberaldemocratica si rivela soprattutto frutto dei nostri errori e della confusione di idee nella quale ci aggiriamo.
Ecco come risponde a distanza Caracciolo:
Sotto lo specifico aspetto geopolitico [...] l'offuscamento del modello democratico si configura come declino delle potenze occidentali. Nel mondo "globalizzato" contiamo di meno che in quello bipolare e diventiamo ogni giorno relativamente più poveri. Incliniamo a percepire tale decadenza non come parentesi ciclica ma in quanto tendenza storica. Ne risulta investita la reputazione dei nostri sistemi politici, non solo perché incongrui ad affrontare l'emergenza, ma perché ne sarebbero la causa. Così apparentemente avvitandoci nel vortice di una crisi senza sbocco, almeno finché non inventeremo un'alternativa che non vediamo, o preferiamo non vedere (Caracciolo, Editoriale in Limes, n.2/2012, pag. 8)
Il direttore della rivista italiana di geopolitica analizza lo stallo e la caduta di prospettiva degli stati-campioni della democrazia funzionale del Novecento, partendo dalla situazione degli Stati Uniti, passando poi verso i nuovi attori economicamente e politicamente più rilevanti (la Federazione Russa e la Cina, che sono la maggior parte dei BRICS ormai sempre più determinanti), e chiudendo con un'analisi con gli occhi ben aperti circa la situazione europea.
Ma la risposta di Caracciolo a Sartori non è ancora chiusa: proprio sulle linee teoriche il responsabile di Limes aggiunge:
Misuriamo le democrazie occidentali in ragione della strumentalità agli scopi che perseguono, calandole in questa esperienza storico-temporale. Secondo il nostro punto di vista, non dal presunto centro dell'universo. Il bilancio non è trionfale. A che cosa deve servirci la democrazia? Ad assicurarci pace, ordine, benessere e libertà. Nell'ordine. La quadruplice radice del marchio occidentale. Il suo valore non è intrinseco, è funzionale.
Il richiamo in parallelo alle parole di Sartori ("Così come Hobbes voleva a tutti i costi la pace, oggi si vuole, costi quel che costi, un posto sicuro, un reddito assicurato: e a questo fine siamo di nuovo disposti ad affidare la nostra sorte a chi promette di avere cura di noi"), è chiaro e chissà quanto voluto. Ma il fatto è: Sartori è stato profeta? Caracciolo usa categorie in tutto simili a quelle del 1957? O il mondo non è cambiato poi tanto? Ma il web, la presenza massiccia dei media non ha determinato uno spostamento preciso e percepibile nella geopolitica?
L'ultimo numero dei Quaderni Speciali di Limes non a caso si occupa di questo fin nel titolo, Media come armi: dunque la mia analisi in un aggiornamento di questo post si occuperà di questo.
Caracciolo continua:
Il marchio regge se produce, soffre se solo predicato. Specie se l'omelia fugge il presente per volgersi in metafisica. Così eccitando aspettative inattingibili e repentine frustrazioni. A farne le spese è la geopolitica del marchio. Ossia la possibilità di usarne per avanzare interessi e valori degli attori che con la democrazia s'identificano — almeno pretendono di farlo. Noi occidentali postuliamo che la democrazia sia valore universale. Agognata da ogni umano — a qualsiasi latitudine e a prescindere da vicende storiche e preferenze culturali — purché libero (liberato) dalla tirannia. Così sovrapponiamo la prescrizione alla descrizione. Salvo poi vedere i nostri modelli autoconsolatori respinti o manipolati da colore che dovrebbero aderirvi. Alimentando i dubbi coltivati da una quota crescente di occidentali sulla bontà del nostro marchio universale.
Non c'è forse in queste parole tutto il senso profondo (non solo italiano, non solo europeo) del sapore che lascia nel ragionamento la quota crescente di "antipolitica" (mot-valise per indicare molte cose, del resto) che viene agitata, non a caso, politicamente, come soluzione ai guai della democrazia?
E non è forse un problema di rappresentanza, piuttosto che di regole o di prospettive?
Non è forse fallito, come dice Caracciolo del capitalismo, il modello smithiano della politica — quella che si polarizza e si autoregola proprio come con le leggi del mercato?
Non è solo una questione italiana, eventualmente europea: Sartori, nel 1957, prima di Amartya Sen o delle analisi di Arrow (e quanti altri ci sarebbero da citare!), diceva
Anche ammesso che la nostra crisi sia prodotta da forze profonde e inarrestabili, queste forze non sono anonime, mute, puri fatti, realtà extramentali. E anche concesso che le ragioni di questa crisi siano molteplici, resta che una di queste — e non la minore — è il non sapere né cosa si vuole né dove si va, lo sbaglio di calcolo e l'errore di previsione, la sproporzione tra ambizioni e mezzi e tra chiacchiere e risultati. Le democrazie soffrono più di qualsiasi altra formula etico-politica di quel sottile male che non perdona, che è la confusione mentale. Perché la democrazia è frutto di una "ideocrazia". Intendo dire che nessun esperimento storico è così pronunciatamente e perigliosamente sospeso alla forza delle idee, e perciò alla nostra capacità di dominare il mondo simbolico. Se queste idee si vanificano, se la ideocrazia democratica annaspa nel più profondo buio, non è molto probabile che una realtà democratica possa sopravvivere. E i sintomi, diciamo la verità, non sono confortanti.
Analisi che si ritrova in quello che Caracciolo, nel suo editoriale, chiama progetto geopolitico globale — l'utopia statunitense inficiata dal deficit funzionale in economia e nella politica internazionale, o l'idea astratta dell'Europa che è diventata democratica solo dopo aver dato vita ai regimi totalitari del Novecento. Nessuno, né USA né Cina né l'Europa sembrano incarnare uno stato in grado di dare agli altri una visione come quella democratica che sia efficace a livello pratico ma anche simbolico: e la sfiducia si attacca anche alle esperienze mediterranee.
Ma proprio per questo, non dovrebbe, propositivamente, l'Europa puntare sulla cooperazione e lo sviluppo (in crescita o in decrescita felice che sia)? E al di là della facile equazione con l'OCSE che è solo occasionale, non dovrebbe l'Europa ragionare democraticamente come da tempo propone un critico proprio di quel modello smithiano della democrazia, Jürgen Habermas, o quel Bloch che proponeva una molla di spinta proprio nell'imprescindibile Geist der Utopie alla storia dell'umanità?
Temperata di senso pratico e non fatta di pura metafisica — per dirla con Caracciolo e con Sartori che cita Hobbes — la politica non dovrebbe comunque coltivare scientificamente il principio speranza?


  • Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna, 1957 (io cito dall'edizione 1976, la quarta: pagg.307-308)
  • Limes. Rivista italiana di geopolitica, n. 2/2012, Gruppo Editoriale L'Espresso, marzo 2012 (l'Editoriale da cui ho tolto le citazioni è alle pagine 7-20)