Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

giovedì 12 dicembre 2013

Cos'è la Grazia?

Questo pomeriggio ho avuto una discussione con una mia carissima amica, che non nomino, ovviamente.
Parlavamo del fatto di ringraziarci, e di ringraziare: la sua idea è diversa dalla mia, forse perché lei crede che due amici non solo non abbiano bisogno, ma non debbano forse nemmeno ringraziarsi, come se questo fosse già di per sé una specie di diminuzione rispetto alla portata di condivisione spirituale che un'amicizia porta, offre e scatena. Ma sto interpretando il suo pensiero, queste non sono le sue parole...
Volevo però condividere le mie.

*** *** ***   *** *** ***   *** *** *** 

Che parola difficile,
carissima ***:
come tutti i concetti semplici, non ci sono appigli e pieghe di significato che possano aiutare ad afferrare il contenuto, a visualizzare un'idea della grazia.
     È grazia, per caso, l'arrendevolezza verso le emozioni forti, la leggerezza di contro alle esagerazioni? Solo in parte: potremmo immaginare situazioni dove il giusto sia rispondere polarizzando, mettendosi agli estremi, scegliendo con decisione di stare e cercare il Mezzo, l'equilibrio.
     Allora grazia è l'equilibrio? Probabilmente sì: ma non il raggiungimento dell'equilibrio, quanto la sua ricerca. Una ricerca che prova ad afferrare l'inafferrabile: poiché l'equilibrio non è qualcosa di statico ma di dinamico.
     E con cosa si afferrano gli Oggetti del Mondo? Con le mani, no?
   Bene, cháris (greco, da cui gratia e caritas del latino, o har del sanscrito), che è il dono, è sorella di chéir, la mano (pensa a chir-urgo, "colui che lavora, érgon, con la mano, chéir" appunto). La mano che dona, la mano che afferra, concretamente e concettualmente la Cosa.
     Noi, alla lettera, conosciamo così: sempre e in ogni caso.
     Conosciamo con l'Occhio, e vediamo la Luce.
   Conosciamo con la Mano, e afferriamo le cose che poi doniamo: "Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date".
     Mi dirai: "C'è un modo ancor più semplice di conoscere? Più intimo e personale?".
   Conosciamo con la Bocca, come i bambini che portano tutto alle labbra e alla lingua: sapio, che vale assaggiopercepisco il sapore, ma è proprio la radice di sapienza, che non a caso non è questione di cervello, ma di Ragione e Sentimento, Corpo e Spirito messi insieme. "Siate il sale della Terra".
    La bocca dice buone e cattive parole, bacia e insulta, mangia e dà da mangiare (pensa ai bimbi che, quando non si fidano di un cibo, lo accettano se un po' morso dalla mamma, che li nutre quindi nuovamente di sé): dunque la bocca conosce, intimamente, la vita delle cose, specie la vita delle cose donate.
     Perciò non c'è cosa migliore di ringraziare, sempre.
     Non è un atto di poca fiducia, un filtro, un riparo: è un manto che avvolge le cose per offrirle in dono — si chiama affettoamoregioia.
    È la condizione per cui e attraverso la quale si è esseri umani: la ver-itas, perché Ver/Vir è l'Umano, uomo o donna, giovane o anziano, che vanno tutti ringraziati e conosciuti attraverso quest'atto. La comunione vivifica e rende possibile questo dono conoscente.
   Poi dalla Cosa, donata e ricevuta, si toglie questo velo d'affetto e d'amore, questo manto: a-létheia, greco, cioè il "togliere il velo", "dischiudere" — è la parola che i Greci usavano per la Verità, e quel léthe è un oblio, il manto del Tempo. Ma ogni cosa, ogni fatto, ogni sentimento è presente in noi solo come ricordo, e quel togliere il manto dell'oblio serve a rendere vivo nuovamente ciò che si è vissuto in comunione con Sé e con il Mondo: serve, non a caso a ri-cor-darlo, a ridarlo al Cuore.
     E non si prova lì, l'affetto, non si prova lì, la gioia?
     E la grazia, non si prova forse lì?
     E non si conosce, forse, anche col Cuore, soprattutto col Cuore?
    Dunque non c'è nulla di affettato in [un] ringraziamento: nulla cioè che non sia affetto gioioso, vero e svelato, reso vivo ogni volta e dato al cuore che lo riceve.

giovedì 21 novembre 2013

Tradurre Wallace Stevens, "From the Misery of Don Joost": la tempesta della vita

Da tanto non traducevo una poesia: leggere in lingua è questione squisitamente mentale, di abitudine, di familiarità. Tradurre, altra cosa, su cui ci si interroga sempre. Del resto, interpretare, tradurre, capire, comprendere, sono attività che possono essere svolte in molti modi: affidandosi a guide o segnando da soli il percorso — ammettendo di dare a quel da soli il valore specificato dal temporaneamente, e occasionalmente, poiché nessuno è mai realmente solo, tanto meno quando traduce.
Ho trovato questi versi tratti dalla raccolta Harmonium di Wallace Stevens, la prima pubblicata: la poesia si intitola From the Misery of Don Joost, e su di essa non vi sono molte informazioni dell'autore. Il componimento viene avvicinato da Stevens a Don Chisciotte (come si dice in questa pagina), ma probabilmente è molto più interessante in via preliminare scoprire invece gli indizi che vengono da Joost.
Intanto il testo (l'edizione che utilizzo è quella di The Collected Poems of Wallace Stevens, Alfred A. Knopf, New York, 1954) :

I have finished my combat with the sun;
And my body, the old animal,
Knows nothing more.

The powerful seasons bred and killed,
And were themselves the genii
Of their own ends.

Oh, but the very self of the storm
Of sun and slaves, breeding and death,
The old animal,

The senses and feeling, the very sound
And sight, and all there was of the storm,
Knows nothing more.


Ho finito la mia lotta con il sole;
e il corpo mio, vecchio animale,
nulla sa più.

Le stagioni potenti procrearono ed uccisero,
e furono esse stesse i genii
della loro propria fine.

Oh, ma il più puro sé della tempesta
di sole e schiavi, morte e riproduzione,
il vecchio animale,

i sensi e le emozioni, l'assoluto suono
e la vista, e ciò che tutto fu della tempesta,
nulla sa più.

     Tracce di Don Chisciotte, è vero, paiono difficili da trovare: non così invece per San Giodòco, Judoc in Bretone, da cui è venuto il nome (frequentissimo nei Paesi Bassi) Joost, che è equivalente all'italiano Giovanni e Giacobbe — quest'ultimo risulterà interessante anche in seguito.
     Judoc/Joost è un santo anticipatore di Francesco d'Assisi: lasciò nel 636 dopo Cristo tutte le paterne ricchezze, il trono e il titolo di conte, si diede alla vita povera ed eremitica, e compì un pellegrinaggio a Roma percorrendo la Via Francigena ritornando sano e salvo nella natia Ponthieu (a nord di Parigi, in Piccardia), dove morì poco dopo il rientro in patria nel 688, ove era nato nel primo anno del secolo.
     Il primo indizio importante (se si tralascia di pensare invece al riferimento a Don Chisciotte dell'autore sfruttando il lungo pellegrinaggio, che sarebbe dunque un a symbolo ad concretum) è il fatto che il corpo di San Giodòco sia rimasto, secondo le testimonianze, incorrotto e incorruttibile. Ecco allora una prima luce che possa spiegare il verso 2, "il corpo mio, vecchio animale": che difatti non viene cancellato o distrutto dalla tempesta, e che forse non ha bisogno nemmeno di sapere qualcosa anziché nulla.
     Importante è allora vedere da cosa derivi tale tempesta: essa è la lotta con il sole, che può risultare più comprensibile riguardando a Joost in quanto Giacobbe, il patriarca che per una intera notte lottò con Jahvè, senza esserne sconfitto che all'alba e con un colpo all'articolazione dell'anca teso a bloccare il nervo sciatico, un colpo apparentemente scorretto e dettato dalla difficoltà di battere questo fortissimo uomo determinato nel voler vedere il volto del suo avversario. Una mossa divina che colpisce i senses and feeling, per bloccare i sensi e fiaccare le emozioni e spegnere un ardimento che (questo sì), come Don Chisciotte, rende Giacobbe/Joost degno di diventare Israele, Padre delle Nazioni seppur con una (parziale, inevitabile) sconfitta contro Dio, tutta umana. Il sole-Dio per eccellenza quindi lotta con Joost, e questi non è sconfitto, tant'è che knows nothing more, non sa più alcunché: capisce soltanto che le stagioni potenti della sua vita, i suoi pellegrinaggi lungo il mondo, le vicende biologiche e universali del tramandare sé stessi e del morire, sono completamente liberi e naturali ed affidati ad una logica loro propria, come Stevens dice ai versi 5 e 6. Per tale ragione l'intera vita è dal punto di vista umano una lotta e una tempesta ove possono trovarsi gli schiavi (l'Umanità intera) e perfino i simboli della religione e della speranza, quel sole che stavolta cristianamente (se prima lo scontro è con il Dio-Padre dell'Ebraismo) è accanto, accomunato, agli Ultimi.
     Questa furia rapinosa non fa comprendere, non consente di afferrare un significato oltre il ciclico nascere e morire: tant'è che il corpo è subito, immediatamente ridotto al vecchio animale, ma nel senso preciso, aristotelico e poi tomistico e in genere medievale del termine — il corpo appunto nelle sue funzioni del breeding and death, una "riproduzione, procreazione, nutrimento, sostentamento" e una "morte". Ma quel breeding che ho continuato a tradurre come "trasmissione della vita", lo è anche in senso più lato, vale a dire nel significato di "allevamento" e dunque "educazione": il viaggio attraverso la lotta e la tempesta è una educazione tanto quanto il pellegrinaggio di San Giodòco, che al suo ritorno a casa è pronto a morire, ad uscire dalla necessità di sapere qualcosa nel Mondo. Ci si educa nel viaggio: ecco forse il perché della spiegazione attraverso Don Chisciotte da parte di Wallace Stevens. Ci si educa con una purezza di suono e di vista (versi 10 e 11) che poi si annichilano, non hanno più bisogno di sapere altro e più di quel che hanno visto, e possono morire: il corpo però, rimane incorrotto, non toccato da queste vicende, forse anche pronto a ritornare agli elementi per risorgere tal quale.
     Ma è ancora Giacobbe/Joost a fornire una spiegazione ad una domanda: perché the very self of the storm [...] knows nothing more? Perché dunque è la tempesta personificata al verso 7 a non sapere più nulla e contemporaneamente nulla di più, vale a dire tutto? In Genesi 46, 26-27 si dice che "Tutte le persone che entrarono con Giacobbe in Egitto, uscite dai suoi fianchi, senza le mogli dei figli di Giacobbe, sono sessantasei. I figli che nacquero a Giuseppe in Egitto sono due persone. Tutte le persone della famiglia di Giacobbe, che entrarono in Egitto, sono settanta"; mentre in Esodo 1, 5 si legge "Tutte le persone nate da Giacobbe erano settanta, Giuseppe si trovava già in Egitto": l'Egitto, la Terra dell'Afflizione e dell'esilio, dunque di una lotta e di una tempesta della vita e dell'intera esistenza non soltanto personale, ma dell'umanità. Ma che sia una coincidenza fortuita o una costruzione di Stevens, è proprio al verso 7 che si legge il più puro sé della tempesta, la sua identità: e sette e settanta sono nel pensiero ebraico numeri per indicare la completezza, la totalità di parti innumerevoli.
     Rappacificati con Dio-sole o mutuamente estranei, Wallace Stevens non si culla nelle illusioni, che sono pur esse de-cise e ri-solte dall'inanità, impossibilità, forse inutilità di cercare di conoscere se vi sia altro rispetto al nascere/riprodursi/morire: questo Qualcosa esiste ed ha senso ed emozione — l'italiano senso aiuta con la sua duplice ambiguità. Il Qualcosa di più è il Viaggio stesso, la Vita stessa, che è tempesta, la miseria del titolo: e chiude il cerchio, poiché miseria è in realtà la diminuzione, il togliere che esfolia il viaggio terreno fin quando non si spegne cadenzando che esso nulla sa più.

lunedì 16 settembre 2013

Il momento opportuno

Da una lettera, della quale taccio il Destinatario:

... ma non è soltanto una questione di tempo,
carissima ***:
l'altro pomeriggio discutevamo del tempo, perché siamo immersi in questa fondamentale illusione che sembra racchiudere anche le altre forme della nostra esperienza.
Anzitutto, spero che tu stia bene, e voglio augurarti una serena e piacevole giornata.
Il mattino è il momento in cui la lotta fra sonno e veglia è forte: non parliamo dei momenti di passaggio fra le stagioni, quando quella ancora viva si sente stringere da quella nascente...
Qui sta il percepire il "momento opportuno": i Greci lo chiamavano kairós.
Ed è l'opportuno rispetto a chi compie l'azione, dunque anche rispetto a chi coopera nell'azione (lo potremmo chiamare il Soggetto); ma insieme rispetto all'agire o meno (lo potremmo chiamare il Fare); e insieme rispetto a ciò che quell'azione crea (lo potremmo chiamare l'Oggetto).
Sta di fatto che così, filosoficamente, tutto diventa arida dissezione, e specie se messa per iscritto, noiosa anatomia di qualcosa che invece è delicato e impalpabile nella sua perentorietà: meglio parlare, dialogare, anche se soltanto per monologo.
Non voglio continuare con la filosofia: è bella e vera, ma richiede piedi pesanti.
Pensa invece il kairós in questo modo, orientale.
Esso è il tempo, nel giardino fiorito o durante la tua passeggiata pomeridiana, in cui ti rendi conto che sui rami o in cima allo stelo quel fiore ha raggiunto la sua maturità, che presto sarà svanita nella vecchiaia e nella dissoluzione: non è più un bocciolo, non è ancora la corolla invecchiata con i petali flosci e gualciti. Dura un attimo o un giorno o una vita intera: il kairós non è questione di lancette, non è quantità ma qualità, e dipende dall'Osservatore.
Ma esso è, insieme, il tempo in cui si decide di ammirare o di cogliere il fiore o di lasciarlo senza più guardarlo e andare via: dunque il kairós è del fiore in quanto suo proprio, e del fiore e di te che l'osservi, in quanto quel fiore non sarebbe stato maturo al punto giusto se non per i tuoi occhi e non da solo per sé stesso.
Infine il kairós è il tempo in cui prendi coscienza di questa occasione NEL tempo, e di come questa, se passata a pensare sia UN aspetto della Cosa, e se passata ad agire sia UN ALTRO aspetto della stessa Cosa: la medesima acqua che stagna nel lago oppure è onda vorticosa con la cresta di schiuma.
Anche in una relazione dunque, il kairós è difficile da cogliere, perché noi siamo limitati, e procediamo per esclusione e non invece per sovrapposizione includente: discerniamo UN aspetto, e poi col ricordo ricostruiamo l'ALTRO o gli ALTRI aspetti per farne una visione complessa.
Quando si dovrà agire o pensare in una relazione?
La contemporaneità non esiste: ridotta ai minimi termini, è impossibile la fusione di Azione e Pensiero, tant'è che si dà all'una o all'altro la prevalenza e su questa si fonda la divisione inestricabile.
Ma vedi?, torna una noiosa analisi filosofica...
Il kairós, difatti, è il momento in cui la decisione è presa: il momento in cui la biforcazione prende corpo e non si può più tornare indietro — il taglio del fiore, la parola pronunciata, il gesto compiuto, il pensiero pensato. L'Atto che prende il posto della Potenza: fino a quel momento nulla esiste e tutto potrebbe, col kairós la Cosa si crea, dopo questo tempo la Cosa esiste "per me" nella coscienza e nella memoria. Ripeto, questo "tempo creativo" non è l'Attimo, o non è esclusivamente l'Attimo, perché non è durata, ma qualità.
Troppa filosofia: chissà che tu non abbia già lasciato perdere...

martedì 12 febbraio 2013

Benedetto XVI: il giusto riposo

Chi non ha ragionato e discusso su Benedetto XVI dalla tarda mattinata di ieri, o non si cura degli affari del Mondo (quello vero) vivendo chissà forse soltanto di giochini e canzoncine, o è purtroppo tanto povero e in affanno da poter dare il giusto peso ad ogni questione, compresa questa che è in verità storica. Ma si sa, la Storia spesso passa sopra le teste dei minimi quasi senza lasciare tracce.
Gli altri si sono schierati, pro o contro il Papa, con la consueta partigianeria: ogni occasione è buona per non stare sul tema e affastellare le accuse giuste e quelle che lo sono meno. Di tutto si può e si deve far critica e sano costruttivo giudizio (ve n'è una giustificazione nel Vangelo, lo dico a favore degli atei), ma rinverdire la pesante durissima giustissima accusa verso la questione della pedofilia, o verso le posizioni in materia sessuale o dei diritti delle coppie o di tutte le altre materie contese, proprio ieri e oggi, non è tanto sbagliato in sé, ma di sicuro poco pertinente verso il tema centrale della rassegnazione del mandato papale.
Perché la questione è in realtà centrale nella dimensione del riposo.
Tale tema è in fondo comprensibilmente messo in ombra, nel nostro tempo, ed anche istituendo un confronto con il precedente Sommo Pontefice.
Se da un lato interno si riverbera ancora la luce di una presenza muscolosa e granitica perfino nella sofferenza degli ultimi anni di vita di Giovanni Paolo II, il contrasto con Benedetto ne esce ancor più a tinte forti e accese: il Papa polacco dotato di carisma e comunicatività sia negli interminabili frequentissimi viaggi pastorali, sia nelle Giornate della Gioventù, sia nelle Vie Crucis tremanti o nel silenzio degli ultimi mesi di malattia e di vita terrena; il Papa tedesco dedito in maniera polarmente opposta ad un timido raccoglimento anche di fronte alle masse di ragazzi di quelle stesse Giornate, o alle Udienze Generali. Il polacco dunque figura di Marta, il tedesco figura di Maria: tornerò sull'allegoria.
Ma dal lato esterno, non siamo più abituati a fare i conti con il riposo nemmeno nella società e nelle immagini di questa che la cultura di massa crea, diffonde ed impone per forza di ripetizione ed iperinformazione: la vecchiaia è scacciata, nascosta, spostata, cancellata e irrisa. Essa non arriva quasi mai, e non sono queste righe le più adatte ad affrontare questo tema capitale: lo do per conosciuto attraverso tante riflessioni di sociologi, psicologi, poeti, e dalla quotidiana esperienza del senso comune.
Eppure è la questione del riposo quella che ogni estate proprio i Papi sottolineano durante le vacanze: un argomento noto quindi, o almeno dovrebbe esser tale.
Perché sia mancata subito una riflessione di questo tipo ieri non è tanto un segnale del lavaggio dei cervelli che i media starebbero (forse stanno) compiendo, quanto invece della portata davvero epocale e straniante e perturbante del gesto di Benedetto XVI.
Va indagata una dimensione teologica del riposo che non esclude le letture politiche, sociali o di qualsiasi altro tipo per la scelta del Sommo Pontefice, ma che credo proprio nel suo caso sarebbe una fra le letture da compiere più delicatamente e profondamente.
Qualche anno fa padre Enzo Bianchi (priore della Comunità di Bose) scrisse una riflessione su questo tema intitolata Il riposo di Dio e dell'uomo, ed è tornato fino al 30 aprile 2012 a ragionare di questo con un articolo su La Stampa (che si legge qui): io non ripercorrerò le argomentazioni di padre Bianchi, ma accennerò solo lo spunto di una interpretazione.
Il Vangelo di oggi 12 febbraio 2013 propone la Prima Lettura dal libro della Genesi 1,20-31.2,1-4a, che termina con queste parole: 

Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.
Si può forse dire ed affermare che Dio Padre abbia sentito la dimensione della stanchezza?
Non per sé, evidentemente: mentre è giusto trovare l'esaltazione del riposo come compimento dell'opera che si ritroverà nel comandamento di santificare le feste, vale a dire rendere santa e sacra la gioia dopo il lavoro. Ma perché mostrare la giustezza del riposo direttamente da parte di Dio, e non affidarlo alla storia sacra dell'Uomo, cui invece tocca la fatica continua del lavoro, come ad Adamo e ai suoi discendenti?
Perché il compimento del lavoro che viene onorato col riposo è un compimento nel vuoto colmo della gratitudine e della Grazia, vale a dire una esaltazione (anche filosofica, se vogliamo) del silenzio creativo che solo ed unico permette la comprensione del messaggio creativo: le filosofie del linguaggio e che si sono interrogate sul Linguaggio, anche sacro, abbondano su questo tema di riflessione.
Dunque il riposo non è abbandono di volontà ma pienezza di scelta nel comprendere il limite: la finitudine che Dio Padre mostra è già a favore dell'Uomo, perfino nell'opera della creazione universale. 
Perciò il riposo non è assenza di forze ma giusta considerazione delle forze e dell'impegno: e sulla forza, anche fisica, l'altro culmine teologico può aiutare a chiarire un'interpretazione teologica del gesto di Papa Benedetto.
Si può forse dire che Gesù sul Golgota stia abbandonando la sua Croce, nel momento in cui cade e viene infine aiutato da Simone di Cirene? È questa forse una deminutio della sua opera di salvezza?
Non voglio ripercorrere le dispute scolastiche, ma credo proprio che l'umanità sofferente di Cristo che viene aiutata nel sollevare e trasportare la Croce sia invece esaltata da questo gesto di inconsapevole cooperazione, che è giusta proprio nella misura in cui il completamento è di nuovo affidato a Dio Figlio che su quella Croce patisce. Non aveva forse chiesto Gesù che quel calice amaro passasse da Lui, nell'Orto degli Ulivi? Eppure è pronto ad accettare la scelta e la decisione della volontà del Padre, e a compierla.
Dunque il riposo e lo stremo delle forze sono in strettissima relazione: nel Vangelo di Marco 6, 30-34 si legge
In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Agli Apostoli vien detto e consigliato di riposare, ed è Gesù, il Capo della Chiesa, che alla vista dei tanti bisognosi, durante il riposo dei suoi pastori offre il suo conforto anche senza il loro aiuto e la loro collaborazione: essi ovviamente torneranno a predicare e a riempire una sede vacante temporaneamente.
Avevano infatti compiuto una parte della loro opera ("gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato"), e dovevano riflettere sulle loro azioni e ritemprare le forze ("erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare").
Torna quindi con forza un dilemma: l'azione efficace è solo quella che viene compiuta fisicamente, o non vi è forse anche altrettanto valore, agente in maniera diversa, nella preghiera? Perciò, riprendendo l'allegoria di qualche riga sopra, ha più valore l'affannarsi coscienzioso e santo di Marta, intenta a sistemare casa, pulire, cucinare, accogliere Gesù concretamente; o quello tutto intento alla persona di Gesù nella preghiera dell'abbraccio della sorella Maria?
La risposta di Gesù nel Vangelo è per Maria e non per Marta, ed una giustificazione sarebbe da trovare con l'analogia degli Apostoli che hanno il diritto di esser lieti fin quando lo Sposo è con loro: Marta, così come gli Apostoli, non sono sminuiti nel loro lavoro, tutt'altro; ma si indica solo come alle opere si possa e si debba porre un limite, che è quello da dedicare alla contemplazione ed alla preghiera, al vero riposo dunque.
Perché non dovrebbe quindi un Papa riposarsi dopo aver compiuto una parte della sua opera?
È forse un modo di disperare del conforto divino nella sua vita o nella sua azione pastorale? Ma chi può dire di aver compiuto realmente tutto, se non Dio? Non sarebbe altrimenti presuntuoso chi pretendesse di aver fatto tutto, o non seguisse il dettame che impone di pregare non solo in patiendo ma anche in orando, vale a dire non solo con la sofferenza ma anche con la preghiera contemplativa?
Uno dei libri più mistici e ardui e dolci della Bibbia, il Cantico dei Cantici, non parla forse del riposo dei due amanti dopo le corse e gli incontri amorosi? E in uno dei Salmi non si legge "in pascoli erbosi mi fai riposare"?
Perché dovrebbe essere più eroica la dimensione di Giovanni Paolo II rispetto a quella scelta da Benedetto XVI? E perché più giusta e condivisibile quella piuttosto che questa della rassegnazione?
Non dice forse, alla fine delle sue forze Gesù al Padre "In manus tuas Domine commendo spiritum meum"?
Qualsiasi cosa si pensi quindi di Papa Benedetto, lo si esamini anche da questo punto di vista e si sciolgano anche i dubbi teologici insiti nel suo comportamento, se ve ne sono.