Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

giovedì 21 novembre 2013

Tradurre Wallace Stevens, "From the Misery of Don Joost": la tempesta della vita

Da tanto non traducevo una poesia: leggere in lingua è questione squisitamente mentale, di abitudine, di familiarità. Tradurre, altra cosa, su cui ci si interroga sempre. Del resto, interpretare, tradurre, capire, comprendere, sono attività che possono essere svolte in molti modi: affidandosi a guide o segnando da soli il percorso — ammettendo di dare a quel da soli il valore specificato dal temporaneamente, e occasionalmente, poiché nessuno è mai realmente solo, tanto meno quando traduce.
Ho trovato questi versi tratti dalla raccolta Harmonium di Wallace Stevens, la prima pubblicata: la poesia si intitola From the Misery of Don Joost, e su di essa non vi sono molte informazioni dell'autore. Il componimento viene avvicinato da Stevens a Don Chisciotte (come si dice in questa pagina), ma probabilmente è molto più interessante in via preliminare scoprire invece gli indizi che vengono da Joost.
Intanto il testo (l'edizione che utilizzo è quella di The Collected Poems of Wallace Stevens, Alfred A. Knopf, New York, 1954) :

I have finished my combat with the sun;
And my body, the old animal,
Knows nothing more.

The powerful seasons bred and killed,
And were themselves the genii
Of their own ends.

Oh, but the very self of the storm
Of sun and slaves, breeding and death,
The old animal,

The senses and feeling, the very sound
And sight, and all there was of the storm,
Knows nothing more.


Ho finito la mia lotta con il sole;
e il corpo mio, vecchio animale,
nulla sa più.

Le stagioni potenti procrearono ed uccisero,
e furono esse stesse i genii
della loro propria fine.

Oh, ma il più puro sé della tempesta
di sole e schiavi, morte e riproduzione,
il vecchio animale,

i sensi e le emozioni, l'assoluto suono
e la vista, e ciò che tutto fu della tempesta,
nulla sa più.

     Tracce di Don Chisciotte, è vero, paiono difficili da trovare: non così invece per San Giodòco, Judoc in Bretone, da cui è venuto il nome (frequentissimo nei Paesi Bassi) Joost, che è equivalente all'italiano Giovanni e Giacobbe — quest'ultimo risulterà interessante anche in seguito.
     Judoc/Joost è un santo anticipatore di Francesco d'Assisi: lasciò nel 636 dopo Cristo tutte le paterne ricchezze, il trono e il titolo di conte, si diede alla vita povera ed eremitica, e compì un pellegrinaggio a Roma percorrendo la Via Francigena ritornando sano e salvo nella natia Ponthieu (a nord di Parigi, in Piccardia), dove morì poco dopo il rientro in patria nel 688, ove era nato nel primo anno del secolo.
     Il primo indizio importante (se si tralascia di pensare invece al riferimento a Don Chisciotte dell'autore sfruttando il lungo pellegrinaggio, che sarebbe dunque un a symbolo ad concretum) è il fatto che il corpo di San Giodòco sia rimasto, secondo le testimonianze, incorrotto e incorruttibile. Ecco allora una prima luce che possa spiegare il verso 2, "il corpo mio, vecchio animale": che difatti non viene cancellato o distrutto dalla tempesta, e che forse non ha bisogno nemmeno di sapere qualcosa anziché nulla.
     Importante è allora vedere da cosa derivi tale tempesta: essa è la lotta con il sole, che può risultare più comprensibile riguardando a Joost in quanto Giacobbe, il patriarca che per una intera notte lottò con Jahvè, senza esserne sconfitto che all'alba e con un colpo all'articolazione dell'anca teso a bloccare il nervo sciatico, un colpo apparentemente scorretto e dettato dalla difficoltà di battere questo fortissimo uomo determinato nel voler vedere il volto del suo avversario. Una mossa divina che colpisce i senses and feeling, per bloccare i sensi e fiaccare le emozioni e spegnere un ardimento che (questo sì), come Don Chisciotte, rende Giacobbe/Joost degno di diventare Israele, Padre delle Nazioni seppur con una (parziale, inevitabile) sconfitta contro Dio, tutta umana. Il sole-Dio per eccellenza quindi lotta con Joost, e questi non è sconfitto, tant'è che knows nothing more, non sa più alcunché: capisce soltanto che le stagioni potenti della sua vita, i suoi pellegrinaggi lungo il mondo, le vicende biologiche e universali del tramandare sé stessi e del morire, sono completamente liberi e naturali ed affidati ad una logica loro propria, come Stevens dice ai versi 5 e 6. Per tale ragione l'intera vita è dal punto di vista umano una lotta e una tempesta ove possono trovarsi gli schiavi (l'Umanità intera) e perfino i simboli della religione e della speranza, quel sole che stavolta cristianamente (se prima lo scontro è con il Dio-Padre dell'Ebraismo) è accanto, accomunato, agli Ultimi.
     Questa furia rapinosa non fa comprendere, non consente di afferrare un significato oltre il ciclico nascere e morire: tant'è che il corpo è subito, immediatamente ridotto al vecchio animale, ma nel senso preciso, aristotelico e poi tomistico e in genere medievale del termine — il corpo appunto nelle sue funzioni del breeding and death, una "riproduzione, procreazione, nutrimento, sostentamento" e una "morte". Ma quel breeding che ho continuato a tradurre come "trasmissione della vita", lo è anche in senso più lato, vale a dire nel significato di "allevamento" e dunque "educazione": il viaggio attraverso la lotta e la tempesta è una educazione tanto quanto il pellegrinaggio di San Giodòco, che al suo ritorno a casa è pronto a morire, ad uscire dalla necessità di sapere qualcosa nel Mondo. Ci si educa nel viaggio: ecco forse il perché della spiegazione attraverso Don Chisciotte da parte di Wallace Stevens. Ci si educa con una purezza di suono e di vista (versi 10 e 11) che poi si annichilano, non hanno più bisogno di sapere altro e più di quel che hanno visto, e possono morire: il corpo però, rimane incorrotto, non toccato da queste vicende, forse anche pronto a ritornare agli elementi per risorgere tal quale.
     Ma è ancora Giacobbe/Joost a fornire una spiegazione ad una domanda: perché the very self of the storm [...] knows nothing more? Perché dunque è la tempesta personificata al verso 7 a non sapere più nulla e contemporaneamente nulla di più, vale a dire tutto? In Genesi 46, 26-27 si dice che "Tutte le persone che entrarono con Giacobbe in Egitto, uscite dai suoi fianchi, senza le mogli dei figli di Giacobbe, sono sessantasei. I figli che nacquero a Giuseppe in Egitto sono due persone. Tutte le persone della famiglia di Giacobbe, che entrarono in Egitto, sono settanta"; mentre in Esodo 1, 5 si legge "Tutte le persone nate da Giacobbe erano settanta, Giuseppe si trovava già in Egitto": l'Egitto, la Terra dell'Afflizione e dell'esilio, dunque di una lotta e di una tempesta della vita e dell'intera esistenza non soltanto personale, ma dell'umanità. Ma che sia una coincidenza fortuita o una costruzione di Stevens, è proprio al verso 7 che si legge il più puro sé della tempesta, la sua identità: e sette e settanta sono nel pensiero ebraico numeri per indicare la completezza, la totalità di parti innumerevoli.
     Rappacificati con Dio-sole o mutuamente estranei, Wallace Stevens non si culla nelle illusioni, che sono pur esse de-cise e ri-solte dall'inanità, impossibilità, forse inutilità di cercare di conoscere se vi sia altro rispetto al nascere/riprodursi/morire: questo Qualcosa esiste ed ha senso ed emozione — l'italiano senso aiuta con la sua duplice ambiguità. Il Qualcosa di più è il Viaggio stesso, la Vita stessa, che è tempesta, la miseria del titolo: e chiude il cerchio, poiché miseria è in realtà la diminuzione, il togliere che esfolia il viaggio terreno fin quando non si spegne cadenzando che esso nulla sa più.

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