Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

venerdì 1 luglio 2022

Due conferenze di Massimo Cacciari a Siracusa: Euripide, Goethe, Spengler, Musil

 Il 29 e il 30 giugno del 2022 Massimo Cacciari ha tenuto due conferenze a Siracusa, nei pressi del Teatro Greco, dedicate entrambe ad alcuni "campioni" (in ogni senso) del pensiero occidentale: l'Ifigenia in Tauride di Euripide e l'Ifigenia di Goethe il 29 giugno; il Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler visto nella comparazione con L'Uomo senza Qualità di Musil giorno 30 giugno.

Ho scritto due brevi osservazioni sulle due conferenze, nella forma di scolii e piccole amplificazioni interpretative.

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Ieri pomeriggio [29 giugno, ndr], tra il frinire alternato delle cicale e il gran caldo del Teatro Greco di Siracusa, Massimo Cacciari ha condotto un dialogo serrato tra Goethe ed Euripide riguardo il plesso fondamentale della libertà e del nomos nelle "Ifigenie" di questi due autori fondamentali della cultura occidentale.
Roberto Fai ed Elio Cappuccio, che hanno introdotto la lectio di Cacciari, hanno bene messo in rilievo non solo la poliedricità dello studioso, ma anche le stimolantissime amplificazioni che ne sono sorte, e che il tempo ben ristretto ieri per tutti i partecipanti ed il mio post oggi non consentono affatto di delineare.
Stamattina leggevo con molto piacere e interesse un analogo post di Elvira Siringo, anche lei ieri fra il pubblico: Elvira ha con grande perspicacia evidenziato un "terzo assente" (ma presentissimo nel discorso tra Euripide e Goethe di Cacciari), che è Shakespeare, di cui lei è studiosa attenta.
E ieri fra le tante questioni che sono emerse, più di una ha evocato Gorgia da Leontinoi, non solo per i "dissoi logoi" richiamati più volte da Elio Cappuccio e da Massimo Cacciari.
È Gorgia infatti che in un frammento di carattere estetico e dedicato al teatro (per la precisione, 82 B 23 DK) individua nella consapevole accettazione dell'inganno tragico la radice della saggezza: questa è la prima affermazione della "sospensione d'incredulità" che è alla base del "piacere" del testo e della letteratura e dell'arte, ma non propone né presuppone affatto una sospensione dell'intelligenza, ma anzi ne dichiara il superiore valore più che razionale.
Me ne sono occupato in un breve saggio qualche anno fa, appunto dedicato a Gorgia ed alle sue radici indoeuropee.
Ma è proprio il mondo indoeuropeo che ad esempio è alla base anche della "metamorfosi anti-tragica" di Goethe più volte ricordata ieri: in un suo bellissimo studio del 1984, "Tragedy and After: Euripides, Shakespeare, Goethe", Ekbert Faas ha tutto un capitolo dedicato a "Goethe's Transcendence of Tragedy" in cui analizza attraverso le lettere indirizzate a Jacobi l'influenza profonda che ebbe il poeta indiano Kālidāsa su Goethe, ed in generale la poetica sanscrita contrapposta a quella aristotelica.
Ma anche un altro importantissimo saggio del 2009 di Markus Winkler, "Von Iphigenie zu Medea. Semantik und Dramaturgie des Barbarischen bei Goethe und Grillparzer", specie nel capitolo dedicato a "Humanisierung der Barbaren, Griechenland-Nostalgie und der Streit über Mythos und Menschenopfer", analizza e approfondisce il concetto che Cacciari ha più volte evocato parlando di Goethe ieri pomeriggio: quello della "rinuncia" come passaggio imprescindibile per il progresso dell'eroe tragico che "cadendo si compie".
Splendida conferenza davvero ieri.

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Anche la seconda conferenza di Massimo Cacciari per il suo breve ciclo dedicato alla lettura di alcuni classici del pensiero occidentale è stata profondamente illuminante, surclassando il gran caldo afoso di Siracusa ieri pomeriggio, ancora nelle prossimità del Teatro Greco. Del resto, parlare del "Tramonto dell'Occidente" di Oswald Spengler, e passarlo al tornasole col Musil di "L'Uomo senza Qualità", non era certo tema da far diminuire la temperatura del discorso.
Nuovamente introdotta da Elio Cappuccio e Roberto Fai (che ha con decisione e perizia ragionato sulla temperie di "crisi e trasmutazione" di tutto il periodo a cavallo fra Ottocento e Novecento, ed ha opportunamente ricordato gli ultimi studi che Cacciari ha dedicato a Max Weber e, recentissimo, proprio a Musil), la lectio ha allacciato diverse raffinate prospettive sul saggio culminante della cultura europea all'incrocio del "lungo diciannovesimo secolo" e del "secolo breve".
Anche per la conferenza di ieri non ho affatto l'ardire di fornire una benché minima sintesi, ma mi permetto solo di aggiungere degli scolii: per gli amici che lo vorranno, sono disponibile a fornire la registrazione audio di entrambe le giornate, così che possano gustare da sé lo sviluppo del pensiero di Cacciari.
In più riprese, nella parte centrale della conferenza, alcune allusioni sono state determinanti per lo sviluppo dell'argomentazione.
In primo luogo, quando è stato detto più volte che per Spengler "Il Mondo è l'insieme dei casi", vale a dire dei "fatti" che significativamente Cacciari ha chiamato "Zufälle" (letteralmente, le "occasioni", come "Occaso" era già stato richiamato da Roberto Fai come il "nome-destino" dell'Occidente), ovviamente il pensiero è andato per molti alla prima proposizione del "Tractatus logico-philosophicus" di Ludwig Wittgenstein, "Die Welt ist alles, was der Fall ist", cioè "Il Mondo è tutto ciò che accade"; ma si potrebbe tradurre, restando ancor più aderenti alla lettera "Il Mondo è tutto ciò che è un caso".
Da una parte Spengler che (ad esempio e nella gran messe di citazioni possibili) all'inizio dell'opera dice "Die Welt des Zufalls ist die Welt der einmalig-wirklichen Tatsachen, denen wir als Zukunft sehnsüchtig oder angstvoll entgegenleben, die uns als lebendige Gegenwart erheben oder bedrücken, die wir schauend als Vergangenheit mit Freude oder Trauer wiedererleben können. Die Welt der Ursachen und Wirkungen ist die Welt des Beständig-Möglichen, die Welt der zeitlosen Wahrheiten, die man zerlegend und unterscheidend erkennt", cioè "Il mondo del caso è il mondo dei fatti reali irripetibili, di quelli futuri verso cui la nostra vita, in desiderio o in angoscia, procede, di quelli che nel presente vissuto ci esaltano o ci abbattono, di quelli passati che meditando possiamo rivivere con gioia o con tristezza. Il mondo delle cause e degli effetti è il mondo del possibile e del costante, delle verità senza tempo conosciute analizzando e distinguendo".
Dall'altra parte Wittgenstein, che al di là delle formulazioni lapidarie diversissime dal fluire metamorfico dello stile di Spengler, afferma: "Es erschiene gleichsam als Zufall, wenn dem Ding, das allein für sich bestehen könnte, nachträglich eine Sachlage passen würde. Wenn die Dinge in Sachverhalten vorkommen können, so muss dies schon in ihnen liegen. (Etwas Logisches kann nicht nur-möglich sein. Die Logik handelt von jeder Möglichkeit und alle Möglichkeiten sind ihre Tatsachen.) Wie wir uns räumliche Gegenstände überhaupt nicht außerhalb des Raumes, zeitliche nicht außerhalb der Zeit denken können, so können wir uns keinen Gegenstand außerhalb der Möglichkeit seiner Verbindung mit anderen denken. Wenn ich mir den Gegenstand im Verbande des Sachverhalts denken kann, so kann ich ihn nicht außerhalb der Möglichkeit dieses Verbandes denken", cioè "Parrebbe quasi un accidente se alla cosa, che potesse sussistere per sé sola, successivamente potesse convenire una situazione. Se le cose possono ricorrere in stati di cose, ciò deve già essere in esse.
(Qualcosa di logico non può essere solo-possibile. La logica tratta di ogni possibilità, e tutte le possibilità sono i suoi fatti. )
Come non possiamo affatto concepire oggetti spaziali fuori dello spazio, oggetti temporali fuori del tempo, così noi non possiamo concepire alcun oggetto fuori della possibilità del suo nesso con altri. Se posso concepire l’oggetto nel contesto dello stato di cose, io non posso concepirlo fuori della possibilità di questo contesto". In entrambi gli autori emerge prepotentemente quella "ragione probabilistica" che Cacciari ha evocato ieri.
Sarà lo stesso studioso, in un altro passaggio, ad affermare che per Spengler lo storico deve parlare soltanto dei fatti/casi, e per il resto deve tacere: limpida evocazione dell'ultima proposizione del "Tractatus", "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere".
In secondo luogo, quando Cacciari ha analizzato le posizioni di Spengler riguardo la crisi e la dissoluzione della forma-Stato come punto-evento culminante del destino dell'Occidente (e "destino", va detto, in tedesco è "Bestimmung" in quanto "determinazione", ma anche "Schicksal" in quanto appunto "casualità", "Zufall"), ha comparato le prospettive epistemologiche di Musil e di Spengler, facendo un rapido cenno alla intraducibilità già del titolo del romanzo di Musil.
"Der Mann ohne Eigenschaften" in originale, "L'Uomo senza qualità" nella traduzione italiana: ma Cacciari ha ricordato che quella "Eigenschaft" è una "qualitas" in quanto è una "proprietas", il "proprium" di una persona, che – ormai fuori dalla concezione umanistica e illuministica – diventa a partire dalla massificazione della società nella seconda parte dell'Ottocento, la "proprietà economica".
Evidente quindi che il pensiero sia andato a tradurre mentalmente l'opera di Max Stirner, uno dei fondatori del pensiero anarchico, intitolata "Der Einzige und sein Eigentum" e nota in Italia come "L'Unico e la sua proprietà", come invece "L'Unico e la sua Qualità", istituendo più di un confronto possibile con Musil e con Spengler.
Non è un caso che infatti quest'ultimo dica, in una delle due citazioni che nel "Tramonto dell'Occidente" dedica a Stirner, queste considerazioni sul "corpo sociale": "Die Aufmerksamkeit, welche der Stoiker dem eigenen Körper zuwendet, widmet der abendländische Denker dem Gesellschaftskörper. Es ist kein Zufall, daß aus der Schule Hegels der Sozialismus (Marx, Engels), der Anarchismus (Stirner) und die Problematik des sozialen Dramas (Hebbel) hervorgingen. Der Sozialismus ist die ins Ethische, und zwar ins Imperativische umgewandte Nationalökonomie. Solange es eine Metaphysik großen Stils gab, bis auf Kant, blieb die Nationalökonomie eine Wissenschaft. Sobald „Philosophie" gleichbedeutend mit praktischer Ethik wurde, trat sie an Stelle der Mathematik als Unterlage des Weltdenkens. Darin liegt die Bedeutung von Cousin, Bendiam, Comte, Mill und Spencer.
Es steht dem Philosophen nicht frei, seine Stoffe zu wählen, so wenig die Philosophie immer und überall dieselben Stoffe hat. Es gibt keine ewigen Fragen; es gibt nur Fragen, die aus einem bestimmten Dasein heraus gefühlt und gestellt werden.,, Alles Vergängliche ist nur ein Gleichnis" - das gilt auch von jeder echten Philosophie als dem geistigen Ausdruck dieses Daseins, als der Verwirklichung seelischer Möglichkeiten in einer Formenwelt von Begriffen, Urteilen und Gedankenbauten, zusammengefaßt in der lebendigen Erscheinung ihres Urhebers. Eine jede ist vom ersten bis zum letzten Wort, vom abstraktesten Thema bis zum persönlichsten Charakterzug ein Gewordnes, aus der Seele in die Welt, aus dem Reiche der Freiheit in das der Notwendigkeit, aus dem unmittelbar Lebendigen ins Räumlich-Logische hinübergespiegelt und mithin vergänglich, von bestimmtem Tempo, von bestimmter Lebensdauer. Deshalb liegt eine strenge Notwendigkeit in der Wahl des Themas. Jede Epoche hat ihr eignes, das für sie und keine andre bedeutend ist. Hier sich nicht zu vergreifen, kennzeichnet den geborenen Philosophen. Der Rest der philosophischen Produktion ist belanglos, bloße Fachwissenschaft, langweilige Häufung systematischer und begrifflicher Subtilitäten", cioè "L’attenzione che gli Stoici dedicarono al loro corpo individuale, i pensatori occidentali la dedicano al corpo sociale. Non è un caso che la scuola di Hegel abbia dato luogo al socialismo (Marx, Engels,) all’anarchismo (Stirner) e ai problemi del dramma sociale (Hebbel). Il socialismo è una economia politica che riveste la forma di un’etica, e di un’etica imperativa. Finché esistette una metafisica in grande stile l’economia politica era rimasta una semplice scienza. Non appena la « filosofia » s’identificò all’etica pratica, essa prese il posto che la matematica aveva avuto quale base della concezione del mondo. Tale è il significato di Cousin, di Bentham, di Comte, di Stuart Mill e di Spencer. Al filosofo non è dato di scegliere il suo oggetto, e la filosofia non ha sempre e ovunque gli stessi problemi. Non vi sono problemi eterni; vi sono soltanto problemi sentiti e posti in base a un’esistenza di tipo determinato. « Tutto ciò che è effimero è soltanto un simbolo » — un tale principio vale anche per ogni filosofia vera, che è l’espressione spirituale di quell’esistenza, la realizzazione di possibilità dell’anima in un mondo di forme costituito da concetti, da giudizi, da costruzioni intellettuali, il quale si riassume nella persona vivente del suo autore. Ognuna di quelle realizzazioni, dalla prima all’ultima parola, dai tempi più astratti ai tratti caratteristici più personali, è un divenuto, qualcosa che dall’anima è passato a riflettersi nel mondo, dal regno della libertà in quello della necessità, e a tale stregua rappresenta qualcosa di caduco avente un dato « tempo », una limitata durata. Per cui la scelta del tema obbedisce a una necessità rigorosa. Ogni epoca possiede un suo tema, avente un significato solo per essa e per nessun’altra. Il filosofo nato è caratterizzato dall’avere un senso preciso di tale tema. Il resto della produzione filosofica è insignificante, è puro specialismo, è un’accumulazione fastidiosa di sottigliezze sistematiche e concettuali".
Fra gli interventi finali, le osservazioni del professor Emilio Galvagno hanno rivendicato a Polibio l'originale formulazione del concetto di "tramonto" come "fine di un ciclo", nel percorso della cultura occidentale. E viene dunque in mente, assieme al Gibbon che il professore citava, anche un altro prodotto crepuscolare della grande "morfologia della Storia" con cui Spengler apre e chiude l'Ottocento e il Novecento: quel ponderosissimo "A Study of History" di Arnold Toynbee, in cui ancora forse si respira l'occaso...
Infine, l'ombra lunga di Jakob Burckhardt aleggiava tra le foglie, assieme a quella di Thomas Mann... Ma sarebbe un altro discorso.
Splendida conferenza anche quella di ieri: due "occasioni" (è il caso di dirlo) davvero stimolanti.

domenica 14 febbraio 2021

Qualche parola sulla debolezza delle parole che dicono l'amore

La poesia rende l'amore altra cosa da quel che si può sperimentare senza parole; la parola trova analogie che l'amore non conosce, perché i freni che il corpo, gli anni, le timidezze diverse impongono, nella poesia non si trovano spesso che come ardite metafore, mentre nell'amore sono gesti mancati, torsioni vibranti, sguardi nel buio tesi a cogliere la presenza della persona amata, ovunque sia.

Per questo la poesia d'amore — pulsione originaria di ogni poetare — è un ponte sull'assenza, sempre: anche le splendide gioie del cuore cantate nell'ardore, si pongono come l'eco rimbombante, ma via via più rarefatta, del tepore e del fuoco; così pure il freddo ustionante dell'assenza, o la noia urgente ad ogni passo, fra i versi si volgono quasi come una danza a suo modo desiderabile.

La parola d'amore non è la parola amorosa: mette sempre un di troppo volendolo togliere, descrive ogni volta in cui vuole evocare. Solo in rari momenti di grazia il poeta si convince, e con nostalgia tace la sua parola e la dimentica, così che qualcun altro, nell'Altrove e col suo personale cammino da segnare, possa a suo modo scordarla ridandola al cuore.


I tuoi occhi — sono rimasti solo quelli
dalla stranezza che ha sottratto il volto —
mi parlano la lingua delle ombre,
sospirano la voce che ho scordato.

Un tempo erano fiamme nell'oscuro,
una carezza a me ch'ero straniero
in ogni luogo avessi respirato;
poi si spensero, aduggiandosi fiochi.

Qualcuno ci dirà che delle labbra
riuscimmo una stagione a fare a meno:
e fu nel freddo della nostra vita,

quando cenere si mescola alla bruma;
nessuno poi saprà quei vani amori
lunghi e celati agli occhi, dardeggiando.

A questo, alle parole più ovattate
dette più indentro al cuore, più sommesse,
si apre questa fine dei ricordi:

quasi che nel coraggio del confondersi
tornasse alle parole più vigore
per dirle fuori a un vero ormai invisibile.

Duro è spesso l'amore, amaro a perdersi,
mutato lungo i giorni impercettibili,
quando la carne cede ai brevi spasimi
tutto il dolce di pelle che si slaccia.

Così quando non serve più parlare
perché labbra o altri segni più non valgono,
sarà nel buio dove è eterna Luce
che quegli occhi sapranno ormai tacere.


"Vibrazione dell'idea di amore", 14.II.2021







sabato 9 gennaio 2021

DI NEBBIA E LUCE

Il nuovo, in quanto inatteso, è la sensazione repentina, dinanzi all'incertezza di ogni nebbia; è la forza prorompente del ricordo nella percezione: l'inerzia in quanto tenacia, opposizione al mutamento — lo sapeva ottimamente Spinoza. En-ergon è il "lavoro interno": il lavorio, la "forza operosa" che "affatica di moto in moto"; dunque l'energia è una "disponibilità al mutamento della forma", dal livello fisico (in quanto "della Natura") minimo a quello supremo, che si riconnettono come le volute di una spirale che unisce la ragione e gli strumenti attraverso i quali se ne prende misura — un logaritmo, propriamente parlando di spirali.

L'Essere è forse la vera impressione della memoria che è in verità "ogni" essere — esse est memini, dicevano i saggi.

Se dunque ogni panorama è un immergersi nella Luce della conoscenza, semplice e aperta percezione che prende assieme i sensi per farne senso, la nebbia ci accoglie nell'alveo dell'inconsapevolezza, non nell'impossibilità della visione. Nella nebbia si vede, ma senza vedere la visione che produce la conoscenza attraverso la percezione. Essa nebbia perciò ci libera, nel limite, dalla presunzione di sapere. 

L'Essere è: la nebbia ci aiuta a ricordarlo. Ogni oscurità è, con la sua propria Luce; altrettanto ogni luce, ogni nebbia, ogni profilo inteso delle cose, saputo con ogni occhio fisiologico, concreto ed astratto, è. 

Quel che chiamiamo "ignoranza" non è quindi ignoranza della cosa (col genitivo oggettivo), ma impotenza in noi e per noi del limite e della nebbia che è sempre sostegno anche quando non lo accettiamo e cerchiamo una visione limpida, senza "filtri", appunto come per giungere ad una verità "oggettiva". Essa però giace sotto l'inevitabile nebbia della costruzione del senso, che è una disponibilità al cambiamento di forma del campo di forze dell'Essere, diffusa in modo diseguale — anisotropo, "in una parte più e meno altrove".

Nel ricordo mutevole e diveniente L'Essere si mostra col suo inevitabile filtro, anzi lo mostra; e anche il filtro è eterno e vero nella misura parziale in cui lo concepiamo, non nel suo intero per sé.

Nella nebbia il vero è dunque più vero, e il suo certo tratto che noi cogliamo è tale, non essendo l'essere dell'Essere, ma la porzione eterna e vera del tutto luminoso ed oscuro insieme, che è la Luce che non potremo mai cogliere ma si mostra nella nube della nonconoscenza. Lì il nostro occhio lattiginoso brilla ultimamente nel fuoco senza limite.



mercoledì 6 gennaio 2021

Apparire e Nutrire, Manifestarsi e Squarciare, Brillare e Parlare

Cos'è l'apparire? In cosa è diverso dal manifestarsi, e in cosa dal brillare?

Apparire, dal verbo latino pāreō, significa "essere visibile", e quando però è coniugato con il riferimento "a qualcuno o qualcosa", significa "sottomettersi", "essere obbediente": e ciò non è solo il segno dell'«umiltà» (dunque di un legame profondo con la terra, humus, che anche etimologicamente è legata all'homō, e non solo per il mito della creazione), ma anche della capacità di "ascoltare", perché quell'obēdiō richiama proprio audiō, ed è a causa di quell'ascolto che si "obbedisce".
A cosa dunque si tende l'orecchio? O la bocca?
Quel pāreō deriva da una radice protoindoeuropea *peh₂-, col significato originario di "proteggere", e poi con quello derivato di "condurre al modo del pastore". Da quella radice è derivato il latino pāscō, cioè "conduco a mangiare degli animali", così come il nome del dio greco Pā́n, il dio che "nutre" in quanto è dio del "tutto"; ed è derivato anche pānis, il "pane", ma così pure penes e penus, cioè per il primo termine il "cibo" e insieme l'«essere sotto il comando di qualcuno", e per il secondo "la parte più interna del tempio di Vesta", che è, circolarmente, il greco hestíā, vale a dire la "terra", dunque humus). 
Ma dalla radice *peh₂- è derivato anche, con il grado vocalico ridotto, *ph₂–tḗr, "Colui che protegge e nutre poiché è visibile", il pa–dre. E in questo circolo dei suffissi d'agente come -tḗr si unisce anche l'altro suffisso d'agente, -mḗn, che si è unito alla radice al grado vocalico forte per derivare *poh₂–i–mḗn, il greco poimḗn, che è anche il "maestro" oltre ad essere il "pastore", vale a dire il mēlá–tēs, cioè "Quello delle pecore" (dove il greco mêlon è però ben prima del "bestiame" invece "ogni tipo di frutto" — dunque ancora, come in un avvitamento, la totalità del "nutrimento"). Da quel grado forte *poh₂ del resto è derivato il germanico *fōdô, da cui discendono to feed, "nutrire", e food, il "cibo".
Apparire dunque, nel senso di essere visibili, è un proteggere: e la migliore forma di protezione è quella del nutrire. Dare in cibo sé stessi, se fosse possibile: la Natura lo fa nel suo eterno trasformarsi per cui ogni ente è cibo per altri enti; e non si dovrebbe dimenticare che lo stesso termine viene dal latino cibus ed imparentato con il greco kībōtós, che ancor prima di essere l'«offerta» è una "scatola di legno" — come a dire una "culla" ricavata da una "mangiatoia", non a caso.

Altro orizzonte si apre col manifestarsi, che ha una vicenda etimologica ben più breve ma non meno interessante, essendo ciò che è manifesto qualcosa che "può essere colpito con la mano". Non toccato, sia chiaro: nell'aggettivo latino mani–fēstus la manus, da cui la "mano" dell'italiano, è la "cosa che indica, segnala", e proviene dalla radice indoeuropea *men- che riguarda ogni "pensiero" e "attività spirituale" (quindi la "percezione" della realtà è svolta "teoreticamente", attraverso lo "sguardo" e l'«ascolto», e in ogni caso senza il contatto fisico); mentre il fēstus finale viene da un verbo che non è attestato autonomamente in latino, *fendō, che significa però originariamente "colpire", "spingere".
Questo verbo ha un'origine protoindoeuropea nella radice *gʷʰen-, che significava "battere", "colpire", e "uccidere"; e dalla stessa radice nel grado vocalico forte *gʷʰon-éh₂ è derivato la parola del germanico *banō, che significa sì il "campo di battaglia", ma anche uno "spazio aperto", un "percorso ripulito" (come nel tedesco moderno Bahn che è la "strada"), quindi infine una innocua "radura". 
Si potrebbe dire quindi uno squarcio nel fitto originario del bosco, nel quale (come nelle etimologie di Isidoro di Siviglia seguite, molti secoli dopo, da Martin Heidegger) si apre il lūcus, l'apertura di luce che è sacra perché "brilla", derivando dalla radice protoindoeuropea *lewk- che ha dato fra gli altri il greco leukós, il "candore abbagliante" e lúkhnos, la "lampada", ed appunto il latino lūmen e lūx.
Ma quello squarcio di luce che si apre nell'oscurità e brilla splendendo, dalla stessa radice *gʷʰen- di *fendōfēstus, attraverso *gʷʰon-yeh₂ ha dato anche il germanico *banjō, che è una "ferita": la luce fuoriesce dal lūcus, che è il "bosco sacro", e ne esce come un sangue brillante di sacrificio. La violenza necessaria dona luce e vita attraverso la morte. 

Nella apertura degli occhi e della bocca infine si può trovare la comunanza tra l'apparire e il nutrire, il manifestarsi e lo squarciare, dunque tra il "brillare" luminoso e il "parlare sacro".
La "manifestazione" di qualcosa infatti, il suo "apparire", è una epifania: essa deriva dal greco epipháneia, composto da epí e phaínō, letteralmente un "brillare dall'alto, un "brillare superiore" che discende proprio per rendersi visibile. 
Quel phaínō viene dalla radice protoindoeuropea *bʰeh₂-, che vale anzitutto "brillare", "emettere luce", ed ha dato fra gli altri il greco pháos che si è evoluto in phôs, la "luce brillante", ma anche in phṓs, il "mortale", l'«uomo» in quanto sta "sotto la luce (del Sole)", e poi ha portato al *-phḗs di saphḗs, vale a dire "ciò che è chiaro perché visto con gli occhi e compreso con la mente", e quindi alla sophíā, la luminosa "conoscenza" che è "maestria" e "ammaestramento" insieme.
Da quel *bʰeh₂- è venuto però anche il latino faveō, che è il "favorire", ma pure l'«incoraggiare» e l'«indulgere»: e proprio quest'ultimo significato non ha nulla di passivo, quanto invece una vera e propria pazienza e sopportazione, poiché nel latino in–dulgeō (come per *fendō) il verbo *dulgeō non è attestato autonomamente, ma deriva dalla radice protoindoeuropea *delgʰ- che ha (come nel greco endelekhḗs, "ciò che è continuo") il significato di "persistente, paziente". Ecco dunque come si favorisce qualcosa, essendo indulgenti in essa e con essa: essendo dei fautori e promuovendo dei gesti fausti, termini entrambi derivati dal faveō latino. Che poi un sinonimo di faustus fosse albus, il "bianco" e "chiaro" di ciò che è "favorevole", non fa che confermare la circolarità dei significati.
Potremmo contentarci di affidare quindi agli occhi questo "bagliore persistente" e "paziente" che sgorga come una "ferita" dell'oscurità che "ferisce" fino a farne uscire la "luce" vera che "nutre" nella misura in cui si rende "visibile" e "appare" come un "padre" che "guida" come un "pastore" e "protegge".
Ma da quella radice *bʰeh₂- deriva anche il preziosissimo termine latino iubar, lo "splendore radioso degli astri", la "grazia": si potrebbe dire, quello dell'apparizione di una cometa nel cielo notturno. 
La parola iubar ha due probabili ascendenze etimologiche: una la descrive come composto della radice protoindoeuropea *dyew-, che è il "chiarore del cielo" ed ha una storia formidabile che porta fino al latino Iuppiter, e appunto *bʰeh₂-, di modo che si possa indicare come un superlativo assoluto e insuperabile, il "chiarore del chiarore", la "luce che viene dalla luce". L'altra etimologia riporta iubar alla radice protoindoeuropea *Hyewdʰ-, che in latino ha dato il verbo iubeō, vale a dire il "comandare", l'«ordinare», l'«autorizzare», e in greco ha dato euthús ed eîthar, col significato di qualcosa di "diretto", "franco", "immediato" e che arriva "tutto in una volta".
Come la luce che "immediatamente" rende "visibile" la realtà, "tutta in una volta" e "una volta per tutte", e "persiste pazientemente", in modo "indulgente" e "propizio" verso chi sta osservando.
Eppure la stessa radice *bʰeh₂- collega gli occhi alla bocca, perché non indica solo il "brillare" ma anche il "parlare": da essa derivano infatti il greco phōnḗ, la "voce", ogni "suono" e "discorso" e "linguaggio", ma anche phḗmē, l'«oracolo» in quanto parola sacra e la "reputazione", e la phásis, che è l'«apparenza»; e derivano pure il latino fāma, che è rimasto tal quale in italiano, e il fātus, in quanto parola sacra pronunciata dai sacerdoti "in nome" della divinità, e la fābula, il "discorso", la "narrazione" che è propria di ogni parlare.

Quale Parola quindi può parlare brillando, e attraverso il suo manifestarsi squarciare le oscurità strappandole con forza come si apre una radura nel fitto di un bosco sacro per farvi penetrare internamente, come in un tempio, la luce splendente e che non muore, ma anzi nutre e favorisce dando sé stessa come cibo, protetto in uno scrigno di legno dal quale fuoriesce come una ferita di sacrificio che la fama proclamerà nel suo discorso?
Una Parola che può compiere la sua epifania brillando come una inestinguibile cometa che brilla sempre e una volta per tutte ricapitolando in sé stessa la Luce Primigenia con la quale il Pastore Divino del Cielo rese visibile l'eternità della realtà nella sua Gloria, come un Padre che prepara in sé e da sé il Pane Celeste e lo dona per prendersi cura del suo gregge e proteggerlo, apparendo.


martedì 5 gennaio 2021

PROPERZIO E LA "FORMA" DEL FUTURO - Piccola nota in margine a Elegiarum, 3, II, 18

In una sua elegia (la seconda del Libro Terzo) il poeta latino Properzio scrive, avviandosi a completare il discorso, "carmina erunt formae tot monumenta tuae", "i canti saranno tante durevoli testimonianze della tua bellezza".
Gioca, come sempre accade con il discorso dei grandi poeti, sull'ambiguità di quella "forma", che è la Bellezza, ma rimanda a un ben altro livello di ordine e grazia.
Properzio ricorda Orazio: quei "monumenta" poetici sono "aere perenniora"; lì si parla di "piramidi" e qui altrettanto, come segni di un'eternità da raggiungere e superare addirittura.
Può farlo la Bellezza? Non di certo quella esteriore e "fisica", nel senso della "physis", della Natura per come si mostra: delle 30 occorrenze di "forma" nelle "Elegie", Properzio per 12 volte la declina come "aspetto", "apparenza esteriore", e sempre così nei pentametri che chiudono i suoi distici.
Allora è la Bellezza del "kosmos", invisibile e inattingibile appieno, se non con l'occhio intellettuale che è guidato dalla poesia, dal "carmen".

Ma c'è qualcosa che rende quel pentametro tanto fascinoso e splendente: non solo la costruzione ritmica, quel martellare allitterante delle T, questa tipica danza ondeggiante; quanto proprio il legare alla fragilità dell'amore la durevolezza, l'eternità che dischiude la visione del Supremo.
Dove in Orazio tutto è già compiuto ("Exegi monumentum aere perennius": in un tempo ormai fissato, perfetto che stentiamo al di là di ogni precisione grammaticale rendendolo con "Ho eretto", "Ho innalzato"), Properzio pone il limite al futuro ("erunt", "saranno").

È l'amore a spostare sempre più in là il risultato, la sua completezza incolmabile? Di certo sì, ed è la sua luce incancellabile a renderlo eterno. Anche quando, nella parte centrale dell'opera, il poeta tradito ed offeso con ira dissimulata e studiata scrive "scribam igitur, quod non umquam tua deleat aetas,/ 'Cynthia, forma potens; Cynthia, verba levis.'/ crede mihi, quamvis contemnas murmura famae,/ hic tibi pallori, Cynthia, versus erit", cioè "Scriverò dunque qualcosa che mai la tua vita potrà cancellare: 'possente, Cinzia, per la sua bellezza; sin troppo fragile, Cinzia, per le sue promesse'. Credi a me, per quanto non ti interessi affatto il mormorio della fama, questo verso, Cinzia, ti farà impallidire".

Cos'è dunque questo "futuro", questo "qualcosa che diviene" in quell'«erunt carmina», in quell'«versus erit»?
È la comprensione del Mondo, la Verità ben più alta: oltre essa, allegoricamente, è il Mistero insondabile, che Properzio col gioco ellenistico ironico e scanzonato indaga fra rabbia e disillusione — "eventum formae disce timere tuae", "impara a temere il destino della tua forma", potremmo finalmente tradurre.

Qual è, se vi è, la cura per questa insondabilità? Se da un lato "pollà pseudontai aoidòi", "i poeti mentono molto", dall'altro Gorgia indica nell'«inganno» e nella "consapevolezza dell'inganno" l'unico strumento per resistere alla tragedia, dentro e fuori dal teatro della vita: "Fiorì la tragedia e fu celebrata perché fu una mirabile recitazione e spettacolo per gli uomini di quel tempo e perché con i suoi miti e con le sue esperienze determinò, come dice Gorgia, un inganno nel quale chi riesce, meglio si conforma alla realtà in confronto di chi non vi riesce, e chi si lascia ingannare è piu saggio di chi non si è lasciato ingannare. Infatti chi è riuscito a ingannare piu giustamente si conforma alla realtà, perché, dopo aver promesso questo risultato, lo ha portato a compimento; chi si è lasciato ingannare è piu saggio: infatti si lascia vincere dal piacere delle parole l'essere che non è privo di sensibilità".