Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

sabato 20 ottobre 2012

Mettere ordine

Ducis imperare, sapientis est ordinare: una vecchia parafrasi di Tommaso d'Aquino diceva, nel Medioevo, quel che il Dottore Angelico aveva detto del sapiente — che il suo compito è quello di trovare un ordine e porre le cose al loro rispettivo posto, trovando per loro il luogo naturale anche dal punto di vista della loro conoscenza.
Molto più semplicemente, ho deciso di indicare un ordine possibile fra i post che nel corso del tempo si sono accumulati: e molto più baroccamente (penso ad Emanuele Tesauro) tanti di essi sono posti a cavallo di vari ambiti e discipline — perché difatti la Luce delle Cose si rifrange e si riflette in modo sempre cangiante.
Sulla Barra in alto quindi, si trovano le nuove pagine dedicate alle Letterature e alle Filosofie con i link diretti verso i post: non mi pare una creazione inutile (Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, diceva Ockham), specie se la ridondanza può trasmettere invece, più efficacemente, una sovrapposizione, un intreccio di vedute, una rifrazione di luci che possa illuminare meglio.
Buona navigazione!

mercoledì 17 ottobre 2012

Twoorty, la knowmunity italiana dove "to know" è meglio di "to show"

Qualche giorno fa Marco Minghetti, giornalista del Sole24Ore, ha pubblicato su Nova24 un interessantissimo articolo (lo leggete qui) su Twoorty, un social network tutto italiano che punta a rivoluzionare un panorama che è già affollatissimo ma proprio per questo consente di maturare esperienze in maniera più critica e consapevole rispetto a qualche anno fa (sembra preistoria, vero?).
Senza ripetere le sue ottime considerazioni e l'intervista ad Alice Cimini e Carlo Crudele (gli ideatori/fondatori di Twoorty), il fatto da notare è, si direbbe, di filosofia: che i social network stiano virando decisamente verso il know piuttosto che cercare di battere il colosso Facebook attraverso il fronte dello show?
Cimini e Crudele, ad una precisa domanda di Minghetti riguardo il knowledge sharing, rispondono chiaramente puntando sulla condivisione efficace di conoscenze: cosa spiegherebbe una "knowmunity", se no?
Ma il punto è: questa non è forse anche la tendenza da cui ha preso le mosse un altro gigante, GooglePlus? La necessità di scegliere consapevolmente con chi condividere i propri contenuti, l'integrazione con la piattaforma Blogger, l'integrazione ancor più con gli strumenti di GoogleDrive, non puntano verso il knowledge sharing di già? O quelle di Twoorty sono soltanto dettagli tecnici differenti di poco conto?
Sembra di no, vista la totale apertura alla condivisione di contenuti delle piattaforme blog: ma ancora una volta — allora è tutta conoscenza quella che verrà postata su Twoorty?
Ad applicare un principio darwiniano, si potrebbe rispondere di sì come per altri social network, con la differenza che in questo nuovo esperimento italiano sono proprio gli interessi, le curiosità verso la knowledge a dettare legge: ancor più rispetto agli usi (possibili) di Facebook come collettore/vettore di conoscenza e contenuti.
Da un lato la forza di una vetrina da un miliardo di utenti (tutti attivi? sempre tutti connessi? e gli Aggiornamenti della Bacheca, quando si accavallano?) a cui mostrare qualcosa — to show —; dall'altro la forza della curiosità: che può anche finire, intendiamoci, ma se ben alimentata è il vero motore delle cose.
Non diceva un certo antico filosofo che la curiosità è infatti la radice di una knowmunity?

sabato 11 agosto 2012

Julia Kent, a Rhodian Cello in Catania


The first event of the artistic and musical season of Efestiade (a must-to-see in the cultural summer of Catania, Sicily since 2010) was a Cello solo concert of Julia Kent, the Canadian-born and New York-based musician now in personal exibitions, that took place in the Ancient Roman Theater of the city tuesday night, August, 7thA unique date that at last was too short for us all waiting for an encore by the artist, alas!
Julia shared informations and impressions with the public even before and after her performance via Twitter: many of us urged her to come out from the scenes and, at the end of the concert, to give us one of her attractive compositions (I craved for 'Overlook'...) but, the heat got the better, and we enjoyed the memories of the music at all and perfectly in line with the location of the show.
Only a few musicologists have been able to understand and reconstruct what Ancient Greek and Roman music really was, and in which manner it sounded to the ears of the public, due to the quite total lack of material testimonies (like papyri, or other manuscripts, especially the Byzantine ones), and of any other evidence. This nearly complete ignorance makes not only a hard and arduous work to imagine the contents of that music but, it obviously makes even more improbable and unconvincing any Musical Philology in whichever way it works on performance praxis. Any attempt indeed is highly circumstantial and truly personal, so we can try to use therefore other knowledge skills to achieve such supposed (until now, obscure) ancient manner to play music.
Julia Kent, who gives concerts in perfect solitude broken only by her modern cello (she perhaps doesn't obey to the tang of having a 'classic' instrument...), might then be a Rhodian, in the meaning given by the Ancient Rhetoric scholars: a wise mixture of articulate rhythmical elements; sound overlaps (maybe most of us soon thinked to David Darling and his multiple tape recording with the cello, just as Julia herself); and a bald technical praxis that drains quite at all the 'vibrato' with the left hand (I heard and saw no more than five minutes of this during an hour, the time of the show).
Asianists, Atticists and Rhodians were in contrast in a world in which Rhetoric (namely the colores rhetorici stated by Quintilian, the greatest Eloquence and Rhetoric scholar of the Roman Early Empire age) was a matter of interest for philosophers, teachers and public speaking professionals, and also for politicians and perhaps for a vaste public of connoisseurs or the simply sightseers during exhibitions performed in squares.
We could imagine the 'asianist' declaiming in a way in some respects similar (in modern sense) to Baroque: they astounded the audience using affected and exaggerated tones, large range pitch of the voice as in music likewise, virtuosity in the structure of the phrases like poets. 'Atticists' otherwise were bald and moderate: without any excess, they loved to be clear and to preserve the order to the extent that they seemed too much concise and terse. One could define them laconic, if they weren't named by Athens and not by Sparta in the way they presented the discourse.
Rhodians at last, were able to use all various rhetorical instruments without exceed in neologisms, or in tone pitch, or in pauses and musical skills, and then without breaking the peace of souls and without the aim of doing so. They were naturally ready to stimulate and involve the public, reaching this as always with supreme tecnique: that of Demosthenes among the Greeks, and of Cicero among the Romans.
It happened so yesterday night with Julia Kent, that her cello was surrounded by the ambient sonorities of light whish water given by the speakers and, that we all had the doubt it was there the really sounding little space of the 'orchestra' sunken in water beneath the 'cavea' to produce this swoosh in the Ancient Roman Theater charming in the dark of the night. May it happen elsewhere a similar consonance in any other 'location', as they say?
The aim but of the cellist, was not to 'try the Greek way' for her catanese play: obviously, in such cases like this an artist shows his own careful reading of the site.
Live electronics and sound overlapping, ambient sonorities and the vitreous consistency of the amplified cello, minimalist structures with a strong inclination to rhythm rather than to harmonic mixture, or towards a melodic order proper to a canon or a fugue: all these are the elements of a blend of styles and genres in the mood of the Rhodian style, shown in a Roman Theater with original parts in stone and wooden bleachers, where the emotional share with the audience get the better, aren't they?
Julia Kent doesn't pale in front of such great personalities: she aroused us on the contrary the desire to listen to her again with pleasure; maybe another time in a setting without pure acoustics like a recording studio ('Asianist'), nor in a Concert Hall like those of the Rasputina ('Atticist', her old group of cellos), but in a extraordinary appropriate place with really 'greek' harmonics like the 'rhodian' Ancient Roman Theater of Catania.

mercoledì 8 agosto 2012

Julia Kent, un violoncello rodiese a Catania

Ho ascoltato Julia Kent ieri sera, dal vivo al Teatro Romano di Catania come primo evento della rassegna Efestiade, ed il suo concerto è stato sin troppo breve per la fame di note mia e del pubblico.
Julia è stata prodiga di comunicazioni via Twitter prima e dopo lo spettacolo verso noi che la sollecitavamo ad uscire dalle quinte, e poi a concederci almeno un bis, ma il caldo catanese ha avuto la meglio e noi ci siamo goduti la memoria delle sue note perfettamente in linea con l'ambientazione del suo concerto. 
Ben pochi fra gli studiosi sono riusciti sinora a ricostruire cosa fosse realmente e come suonasse la musica antica greca e romana: la mancanza pressoché totale di testimonianze materiali non solo rende difficile immaginare i contenuti, ma ancor più improbabile qualsiasi filologia che voglia occuparsi di prassi esecutiva, ovviamente.
I tentativi sono tutti fortemente indiziari e personali: allora forse si può avere la libertà di usare altri strumenti conoscitivi per risalire ad un presunto (finora sconosciuto) modo antico di suonare.
Julia Kent, che tiene i suoi concerti in perfetta solitudine col suo violoncello, sarebbe allora una rodiese, nel senso della retorica classica: una mistura sapiente di elementi ritmici articolati, di sovrapposizioni sonore (come non pensare a David Darling e alle sue sovraincisioni col violoncello, proprio come la Kent), ed una tecnica esecutiva asciutta, dove su un'ora di musica la mano sinistra ha suonato il vibrato per meno di cinque minuti.
Asiani, Atticisti e Rodiesi si contrapponevano in un mondo dove la retorica (i colores rhetorici di Quintiliano, il grande sistematore dell'età imperiale) interessava filosofi, maestri e professionisti, politici, forse anche un pubblico più largo di intenditori e amatori o i semplici curiosi durante le esibizioni nelle piazze.
Gli Asiani strabiliavano in un modo che, modernamente, assoceremmo al Barocco: toni caricati, forti escursioni vocali proprio come fosse musica, virtuosismi con le parole al modo dei poeti. Gli Atticisti, invece, asciutti e misurati, senza eccessi di alcun genere, amanti della chiarezza e dell'ordine al punto da sembrare sin troppo concisi, stringati: se non prendessero il nome dall'Attica e da Atene, li si sarebbe definiti spartani nel modo di porgere le parole ed i discorsi, laconici appunto.
Infine i Rodiesi: capaci di servirsi dei vari strumenti senza eccedere, delle parole nuove e del tono di voce senza esagerare, delle pause e della musicalità senza turbare gli animi e senza quello scopo, pronti a stimolare, a coinvolgere con la naturalezza, che è fatta dall'arte, sempre. Demostene, per capirci: e fra i romani, Cicerone.
È capitato così ieri sera con Julia Kent che il suo violoncello fosse contornato, spazialmente, dai suoni ambient dell'acqua leggera frusciante diffusi dagli altoparlanti e che venisse il dubbio, nel Teatro Romano fascinoso nel buio, che fosse proprio la piccola zona dell'orchestra sotto la cavea, sommersa dall'acqua, a risuonare. Poteva capitare altrove, in un'altra location come si usa dire, di avere una consonanza simile?
Ma lo scopo della violoncellista non era quello di tentare la via greca per il suo concerto catanese: ovvio che sì, ma proprio qui si mostra la capacità di lettura dei luoghi da parte di un'artista.
Live electronics, sovraincisioni, suoni ambient, la consistenza vetrosa del violoncello amplificato, strutture minimaliste con una forte propensione ritmica piuttosto che verso un impasto armonico o una costruzione melodica da canone o da fuga: in un Teatro Romano con gradinate in legno e parti originali in pietra, non sono questi gli elementi di una mescolanza di stili e generi sullo stile rodiese, dove a prevalere è la condivisione emotiva con il pubblico?
Se i nomi citati si son fatti grossi, Julia Kent non scompare nel paragone: ci ha lasciato anzi l'appetito per riascoltarla piacevolmente, magari ancora in una cornice dall'acustica non da studio di registrazione (Asiana) né da concerto dei Rasputina (il suo vecchio gruppo di soli violoncelli, Atticista), ma straordinariamente consona e armonica e veramente greca come il rodiese Teatro Romano di Catania.

sabato 2 giugno 2012

Fedeltà

D'un tratto—è passato poco, in fondo—le visite hanno raggiunto le quattromila.
È un piccolo vanto con me stesso, se considero che le mie parole (i post, le condivisioni, i ragionamenti sviluppati) sono state, in questi anni, complessivamente pochissime, sporadiche apparizioni.
Amori come gli abbagli, i colpi di fulmine, che si rinverdiscono pur cambiando vita, a ogni nuovo sguardo.
La Luce delle Cose è tale, che brilla anche di poco lume: Savii parvis luminibus luminant magnas.
Grazie a tutti quelli che sono passati da qui.

venerdì 1 giugno 2012

Le crepe della terra: Klaus Kinski poeta

Klaus Kinski è per molti soltanto un attore denso di incoerenze, una figura fortemente contraddittoria e irta di luci ed ombre: più che ad un quadro di Caravaggio, qualcuno l'ha interpretato nella sua parabola artistica e personale come l'ultimo attore espressionista, l'ultimo attore muto del Novecento.
Quanto vi sia di genealogicamente affine tra il Barocco e l'Espressionismo è facile vedere, e non è un caso che gli studi più notevoli sul Barocco, nel secolo ormai passato, siano venuti da letterati e studiosi per molti versi espressionisti come stile cognitivo e pratica comunicativa (Eugenio d'Ors, Mario Praz, ma anche Elémire Zolla: e l'elenco potrebbe continuare).
Queste mie riflessioni però sono precisamente estemporanee, stimolate da una coincidenza fortuita fra la catena di terremoti che stanno colpendo il territorio dell'Emilia e la lettura di un articolo-antologia su Klaus Kinski apparso sull'ultimo numero (maggio 2012) di Poesia, la storica rivista di Nicola Crocetti. 
L'introduzione con un breve saggio e la traduzione di alcune poesie sono a cura di Antonio Curcetti, che si è già occupato di Kinski negli anni passati: io ne riporto una, dal Tagebuch eines aussätzigen (una scheda con diverse recensioni di quotidiani tedeschi, si legge a questa pagina), che ha per titolo la data del 27. märz.

... O mein Gott, wie furchtbar teilt sich die Sonne, wenn wir nach ihr
greifen, um uns daran zu wärmen — Sie teilt sich, als täte die Erde sich
auf in großen Rissen — und sie lacht nur im Kreis — ach, ach — hingeben ist noch alles —
und erschrecken nicht über den Schmerz, wenn wir ihn doch suchen —
und wir singen in seiner leichten Ohnmacht — und vielleicht ist nichts Schweres mehr.
Mein Gott, weinen für Blumen einmal, damit sie ein wenig ausruhen —
— ich brenne...
und die Sonne schleicht schon herum,
aber ich weiß es und bin gefaßt —
aber ich brenne schon — denn die Sonne ist schnell —

... O mio Dio, è orribile come il sole si laceri, quando a lui
noi guardiamo per riscaldarci — quando si lacera, la terra
sembra aprirsi in grandi fenditure — ed è radioso soltanto nel disco —
ahimè, ahimè — sacrificare di nuovo ogni cosa —
e non avere alcun timore del dolore, quando siamo noi a cercarlo —
noi cantando immersi nel suo lieve deliquio —
e forse nulla più essendo insopportabile.
Mio Dio, piangere almeno una volta per i fiori, perché essi possano avere un po' di pace —
— io scotto...
e il sole striscia attorno, 
ma io lo so e sono pronto —
ma io già brucio — poiché veloce è il sole —


Non è già spezzata già la voce di questa poesia, frantumata come le fenditure della terra che descrive? Gli incisi che si aprono via via non sono altro appunto che squarci, strappi sintattici nel corso del continuum dei versi: poiché non si richiudono, anzitutto, e sembrano invece approfondire il piano del riferimento con una sollecitata subordinazione logica, che si apre al terzo verso, "— ach, ach — hingeben ist noch alles —", e poi ancora scende sul piano espositivo con l'anafora che segue, "und erschrecken nicht über den Schmerz  [...] und wir singen in seiner leichten Ohnmacht".
A cosa si legano quei due und, e attraverso quali concetti stringono il legame? Il campo semantico da indagare è quello del Opfer, di una offerta sacrificale che mostra la potenza spaventevole del sacro (il Sole di cui si parla provoca Furcht, dunque Schreck) e che conduce allo sfinimento delle forze: cos'è infatti ohne-macht, se non la più nuda descrizione della trance che conclude l'esperienza mistica e rituale, durante la quale, privi di forza, si è invasi dal canto e si perde il peso (leicht, dice Kinski) del corpo terreno per quello spirituale, che è appunto leggero? Pare di sentire le parole di René Girard, l'antropologo che più ha indagato il sacrificio e i suoi risvolti nelle strutture del pensiero: si pensi almeno al suo bellissimo saggio La violenza e il sacro (la scheda istituzionale dell'editore Adelphi a questa pagina).
Il canto ("wir singen", un canto collettivo e rituale) porta il superamento del timore perché, traducendo altrimenti che come usa Curcetti, "nulla è forse più gravoso ormai", e dunque schwer risponde a leicht: la poesia che è adombrata in questa metafora tradizionale, quella del canto, rimanda all'esperienza religiosa e misterica, alla magia, come avrebbe affermato un'altra grande antropologa, Anita Seppilli, nel suo classico studio del 1962, Poesia e Magia (la scheda della ristampa del 2011 presso Sellerio — l'editore originale è Einaudi — si legge a questa pagina).
Ed è ancora una forte simbologia religiosa, rituale e misterica quella che emerge dalla seconda parte della poesia di Kinski, che era nutrito di disordinate ma intense letture fin dalla giovinezza: cosa sarebbero i fiori se non il frutto dei cicli di morte e rinascita che animano il pensiero umano fin dai primordi?
La dialettica del mitologema dei fiori è scoperta in Kinski: "weinen für Blumen einmal, damit sie ein wenig ausruhen", dove il punto nodale è il ruhen aus, l'aver pace e riposo nel senso di "quiete", dunque di Morte — il seme scompare e muore sotto terra per poi fiorire e riprodursi, come nel mito di Kore/Persefone; il Sole stesso cade e risorge nel suo moto che quiete non ha e non cessa. Dirà alla fine del componimento, "die Sonne ist schnell", non a caso: perché il sole è una presenza continua e fluida — schleichen è verbo del Serpente, che è simbolo solare e insieme del cerchio, l'uroboros — ma presenza che permea tutto lentamente — non è schleichen infatti il verbo del langsam vergehen?
L'unità che è spezzata sintatticamente nel dettato della poesia, si ricompone nel contenuto e nelle scelte lessicali di Kinski, che sono però fitte di rimandi e di ossimori, di corrispondenze in parallelo e di chiasmi, e nelle due anafore, una con und...und, dove i versi hanno un significato includente e fanno corpo al sacrificio col canto, l'altra alla fine con aber...aber, dove il culmine è la febbre mistica, il brennen del sacrificio di sé che si consuma sotto il Sole.
Perché il Sole, il Sacro, è spezzato e lacerato, ed anche il suo corrispondente specchio, la Terra che è quanto di più Altro e Diverso c'è rispetto al Sacro, si spezza e ribolle: sembrerebbe una sottile coincidenza, ma è del filosofo Andrea Tagliapietra  uno degli studi più belli e densi su questa costellazione simbolica del rapporto speculare fra Cielo e Terra, Sacro e Profano, e si intitola La metafora dello specchio (la scheda della casa editrice a questa pagina).
Kinski era cosciente di queste possibili letture, o era invasato egli stesso, durante la sua febbre pestilenziale e da lebbroso, come recita il titolo della sua opera poetica?
Ha senso dirlo di un poeta-attore? Lo avrebbe per un poeta-scrittore, conscio perché esplicitamente portato a mostrare le sue scelte, anche addirittura con l'autocommento (da Dante a Leopardi a Montale, per restare solo agli italiani e ai maggiori). Ne ha meno per un poeta-performer che ha fatto della sua vita stessa un atto spezzato e lacerato d'arte e di miseria, dove Terra e Cielo sono caduti in gorgo come nella febbre che ha sempre attanagliato Kinski.





mercoledì 23 maggio 2012

Dove va la "democrazia" di Lucio Caracciolo e Giovanni Sartori?

L'ultimo numero di Limes — intitolato A che serve la democrazia — ha un editoriale illuminante come non mai: La democrazia dopo la democrazia.
Il ragionamento che vi si compie è importante, dal punto di vista teorico non troppo impegnativo, ma senza dubbio forte e teso nello scontro con la realtà, nella presa di posizione riguardo il tempo e le situazioni che viviamo.
Con una pointe anche linguistica molto decisa, Caracciolo afferma che la prova della democrazia è sempre stata piuttosto funzionale che definitoria: vale a dire che, specie nel Novecento, le forme di governo sono state descritte come democratiche soltanto in un dopo logico, attraverso i risultati che hanno portato nella vita degli stati e dei cittadini, e non in un piano astratto, in un prima teorico rispetto alle applicazioni.
Nume tutelare di questo ragionamento sarebbe, non dichiarato, quel Giovanni Sartori autore di Democrazia e definizioni (Sartori 1957): non sempre è necessario (e nemmeno possibile) individuare le ascendenze intellettuali, e Limes è una rivista "militante" piuttosto che "accademica". Ma mi ha colpito una somiglianza che la dice lunga sul dibattito consustanziale alla democrazia già nel suo nascere fra i Greci.
Nella "Conclusione" del suo saggio, Sartori scrive
Fatte le debite analogie, alcune analogie potrebbero valere anche per noi. Così come Hobbes voleva a tutti i costi la pace, oggi si vuole, costi quel che costi, un posto sicuro, un reddito assicurato: e a questo fine siamo di nuovo disposti ad affidare la nostra sorte a chi promette di avere cura di noi. [...] Democrazia formale e democrazie reale, libertà astratta e libertà concreta, giustizia formale e giustizia vera, tutti questi passaggi non hanno più gran senso, e tutte queste formule non sono che fuochi di artificio. Il caso è molto più semplice. Non è la libertà "reale" che ci interessa, è semplicemente che non apprezziamo più la libertà come tale. Non è la democrazia "sostanziale" che ci preme, è semplicemente che la democrazia, in sé e per sé, non ci dice molto. Siamo sazi di libertà e di democrazia perché noti nulla cupido. Tuttavia non sono affatto sicuro che questa sia la diagnosi giusta. Non è che la scelta di valore sia stata fatta: è piuttosto che la si fa senza saperlo e soprattutto senza volerlo. Il fatto che si parli tanto di "vera" libertà e di "vera" democrazia sembra suggerire che i valori ultimi e le credenze di fondo della civiltà occidentale sono e restano profondamente radicate. Il che legittima il sospetto che stiamo assistendo non tanto a una mutazione di valori, ma a una operazione di aggiramento di quei valori. E in tal caso la crisi della civiltà liberaldemocratica si rivela soprattutto frutto dei nostri errori e della confusione di idee nella quale ci aggiriamo.
Ecco come risponde a distanza Caracciolo:
Sotto lo specifico aspetto geopolitico [...] l'offuscamento del modello democratico si configura come declino delle potenze occidentali. Nel mondo "globalizzato" contiamo di meno che in quello bipolare e diventiamo ogni giorno relativamente più poveri. Incliniamo a percepire tale decadenza non come parentesi ciclica ma in quanto tendenza storica. Ne risulta investita la reputazione dei nostri sistemi politici, non solo perché incongrui ad affrontare l'emergenza, ma perché ne sarebbero la causa. Così apparentemente avvitandoci nel vortice di una crisi senza sbocco, almeno finché non inventeremo un'alternativa che non vediamo, o preferiamo non vedere (Caracciolo, Editoriale in Limes, n.2/2012, pag. 8)
Il direttore della rivista italiana di geopolitica analizza lo stallo e la caduta di prospettiva degli stati-campioni della democrazia funzionale del Novecento, partendo dalla situazione degli Stati Uniti, passando poi verso i nuovi attori economicamente e politicamente più rilevanti (la Federazione Russa e la Cina, che sono la maggior parte dei BRICS ormai sempre più determinanti), e chiudendo con un'analisi con gli occhi ben aperti circa la situazione europea.
Ma la risposta di Caracciolo a Sartori non è ancora chiusa: proprio sulle linee teoriche il responsabile di Limes aggiunge:
Misuriamo le democrazie occidentali in ragione della strumentalità agli scopi che perseguono, calandole in questa esperienza storico-temporale. Secondo il nostro punto di vista, non dal presunto centro dell'universo. Il bilancio non è trionfale. A che cosa deve servirci la democrazia? Ad assicurarci pace, ordine, benessere e libertà. Nell'ordine. La quadruplice radice del marchio occidentale. Il suo valore non è intrinseco, è funzionale.
Il richiamo in parallelo alle parole di Sartori ("Così come Hobbes voleva a tutti i costi la pace, oggi si vuole, costi quel che costi, un posto sicuro, un reddito assicurato: e a questo fine siamo di nuovo disposti ad affidare la nostra sorte a chi promette di avere cura di noi"), è chiaro e chissà quanto voluto. Ma il fatto è: Sartori è stato profeta? Caracciolo usa categorie in tutto simili a quelle del 1957? O il mondo non è cambiato poi tanto? Ma il web, la presenza massiccia dei media non ha determinato uno spostamento preciso e percepibile nella geopolitica?
L'ultimo numero dei Quaderni Speciali di Limes non a caso si occupa di questo fin nel titolo, Media come armi: dunque la mia analisi in un aggiornamento di questo post si occuperà di questo.
Caracciolo continua:
Il marchio regge se produce, soffre se solo predicato. Specie se l'omelia fugge il presente per volgersi in metafisica. Così eccitando aspettative inattingibili e repentine frustrazioni. A farne le spese è la geopolitica del marchio. Ossia la possibilità di usarne per avanzare interessi e valori degli attori che con la democrazia s'identificano — almeno pretendono di farlo. Noi occidentali postuliamo che la democrazia sia valore universale. Agognata da ogni umano — a qualsiasi latitudine e a prescindere da vicende storiche e preferenze culturali — purché libero (liberato) dalla tirannia. Così sovrapponiamo la prescrizione alla descrizione. Salvo poi vedere i nostri modelli autoconsolatori respinti o manipolati da colore che dovrebbero aderirvi. Alimentando i dubbi coltivati da una quota crescente di occidentali sulla bontà del nostro marchio universale.
Non c'è forse in queste parole tutto il senso profondo (non solo italiano, non solo europeo) del sapore che lascia nel ragionamento la quota crescente di "antipolitica" (mot-valise per indicare molte cose, del resto) che viene agitata, non a caso, politicamente, come soluzione ai guai della democrazia?
E non è forse un problema di rappresentanza, piuttosto che di regole o di prospettive?
Non è forse fallito, come dice Caracciolo del capitalismo, il modello smithiano della politica — quella che si polarizza e si autoregola proprio come con le leggi del mercato?
Non è solo una questione italiana, eventualmente europea: Sartori, nel 1957, prima di Amartya Sen o delle analisi di Arrow (e quanti altri ci sarebbero da citare!), diceva
Anche ammesso che la nostra crisi sia prodotta da forze profonde e inarrestabili, queste forze non sono anonime, mute, puri fatti, realtà extramentali. E anche concesso che le ragioni di questa crisi siano molteplici, resta che una di queste — e non la minore — è il non sapere né cosa si vuole né dove si va, lo sbaglio di calcolo e l'errore di previsione, la sproporzione tra ambizioni e mezzi e tra chiacchiere e risultati. Le democrazie soffrono più di qualsiasi altra formula etico-politica di quel sottile male che non perdona, che è la confusione mentale. Perché la democrazia è frutto di una "ideocrazia". Intendo dire che nessun esperimento storico è così pronunciatamente e perigliosamente sospeso alla forza delle idee, e perciò alla nostra capacità di dominare il mondo simbolico. Se queste idee si vanificano, se la ideocrazia democratica annaspa nel più profondo buio, non è molto probabile che una realtà democratica possa sopravvivere. E i sintomi, diciamo la verità, non sono confortanti.
Analisi che si ritrova in quello che Caracciolo, nel suo editoriale, chiama progetto geopolitico globale — l'utopia statunitense inficiata dal deficit funzionale in economia e nella politica internazionale, o l'idea astratta dell'Europa che è diventata democratica solo dopo aver dato vita ai regimi totalitari del Novecento. Nessuno, né USA né Cina né l'Europa sembrano incarnare uno stato in grado di dare agli altri una visione come quella democratica che sia efficace a livello pratico ma anche simbolico: e la sfiducia si attacca anche alle esperienze mediterranee.
Ma proprio per questo, non dovrebbe, propositivamente, l'Europa puntare sulla cooperazione e lo sviluppo (in crescita o in decrescita felice che sia)? E al di là della facile equazione con l'OCSE che è solo occasionale, non dovrebbe l'Europa ragionare democraticamente come da tempo propone un critico proprio di quel modello smithiano della democrazia, Jürgen Habermas, o quel Bloch che proponeva una molla di spinta proprio nell'imprescindibile Geist der Utopie alla storia dell'umanità?
Temperata di senso pratico e non fatta di pura metafisica — per dirla con Caracciolo e con Sartori che cita Hobbes — la politica non dovrebbe comunque coltivare scientificamente il principio speranza?


  • Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna, 1957 (io cito dall'edizione 1976, la quarta: pagg.307-308)
  • Limes. Rivista italiana di geopolitica, n. 2/2012, Gruppo Editoriale L'Espresso, marzo 2012 (l'Editoriale da cui ho tolto le citazioni è alle pagine 7-20)