Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

mercoledì 22 aprile 2020

Mettere ordine nel silenzio


Silenzio come “vuoto”È quasi banale pensare al silenzio seguendo le definizioni dei dizionari — e già questo potrebbe essere sintomatico di una modalità di conoscenza, quella che cerca anzitutto di associare le parole alle cose attraverso un vocabolario e non primariamente attraverso un’enciclopedia, ammesso che invece nel pensiero spontaneo e meno ordinato non si segua invece la via opposta.

Silenzio come “nulla”
Silenzio sarebbe quindi “assenza di suono”: definizione in negativo quindi, come a dire che ontologicamente, e non solo cognitivamente, il prius sia il suono, che questo suono dunque precede il silenzio, e non questo silenzio la base per il fatto d’esperienza dell’uno e dell’altro fenomeno acustico.
Un sinonimo potrebbe essere quindi, generalizzando i dati di esperienza, quello di vuoto contrapposto perciò ad un pieno, stante l’assenza necessaria a definire il silenzio. Più radicale però rispetto ad altri contrasti strutturalmente simili perché polarizzati, come “luce” e “buio”, il contrasto fra silenzio e suono tende a quello semanticamente fondamentale fra essere e non-essere. Anche in questo caso infatti si viene fortemente attratti verso la conclusione dell’estensione massima e dell’intesione minima: il suono è “qualsiasi fenomeno acustico”, il silenzio appunto la sua assenza; e se nel suono possiamo riconoscere almeno la gradazione del rumore (incerta, fallibile, poco commerciabile come nel contrasto fra “bello” e “brutto”) che però subito sposta il giudizio verso questioni “esterne” come il ricorso all’idea e al successivo concetto di “armonia” — ancor più problematica —, il silenzio non conosce altro che l’intensione massima negativa. Kant e Cassirer avrebbero ragionato molto su questo concetto della “quantità negativa”, non a caso: ma siamo sempre non lontani dalla considerazione di un ragionamento sub genere sonitus e sub specie silentii, e la storia della riflessione occidentale ha fra l’altro maggiormente posto l’accento sulla dimensione umana di questo contrasto fra silenzio e suono, perché quest’ultimo è stato principalmente declinato come vox, il suono umano e caratterizzante — bello sarebbe ripercorrere le tappe delle riflessioni medievali sulle voces animalium e la dinamica di formazione del concetto di suono “umano” appunto per i filosofi dell’epoca.
Se la posizione analitica è quella generalmente ontologica, per cui vi è una analogia fra silenzio e vuoto da un lato e fra suono e pieno dall’altro, questa stessa può essere estesa ulteriormente e massimizzata con la proporzione di silenzio come nulla e suono come essere. Porre il silenzio come nulla (dunque positivamente) e non semplicemente come non-essere secondo la definizione in negativo consente di cercare di applicare una mereologia, e avvicinare l’analisi al sorite per cui il silenzio non è esclusivamente definibile in termini logici ma va indagato fenomenologicamente, anche in modo ingenuo, facendolo quindi emergere ontologicamente, fondandolo, ponendolo e predicandolo.
È chiaro che con questo spostamento concettuale il silenzio come evoluzione analitica del vuoto e del nulla assume su di sé ancor di più la problematicità di quell’è, della questione parmenidea quindi con tutto quel che ne deriva per il fondamento della cultura occidentale, perché esso entra quindi a pieno titolo, col sorite di cui si accennava sopra, nel dilemma del divenire: quando inizia il silenzio, e quando finisce? Da una questione ontologica la posizione è divenuta una questione gnoseologica perciò; ma tale spostamento consente di analizzare altrimenti lo statuto del silenzio, appunto attraverso una mereologia che sfuma e rende più flessibili i confini di quel contrasto polarizzato iniziale. Attraverso questo spostamento del silenzio in quanto “parte” predicabile nell’ontologia del fatto acustico se ne riconosce il valore posizionale: facile ritrovarlo come un analogo in linguistica, nelle manifestazioni storicamente attestate dei vari sistemi di scrittura, nella musica, nel pensiero logico-matematico attraverso lo zero ed il vuoto. Anzi, se si volesse indagare in una prospettiva genetica la casistica del silenzio nelle forme culturali della storia dell’umanità lo si vedrebbe appunto emergere dal continuum che ha caratterizzato i primi stadi di queste espressioni dell’intelligenza collettiva: la scriptio continua di quasi tutti i sistemi di scrittura non prevede il “silenzio grafico” ed è ancorata ad una ontologia dualista fra “lettere” (nelle varie forme dei pittogrammi, ideogrammi, segni sillabici, segni consonantici e poi segni diacritici per le vocali in primo luogo e poi per la punteggiatura) e una “posizione vuota” che emerge via via che si impone una mereologia più sfumata e variegata rispetto al dualismo originario. Allo stesso modo, se la musica e la fonazione impongono per loro essenza l’alternanza di vuoto e pieno (così come le prime espressioni ritmiche della spazialità artificiale, modellate sull’analogia anatomica umana), la sintassi delle lingue conosciute ha individuato nelle loro fasi iniziali una prevalenza del “pieno espressivo” e solo dopo ha visto la comparsa della “posizione vuota” manifestata con gli elementi del discorso sottintesi, non esplicitati, e dunque silenti. Fondamentale e imprescindibile per tutto il ragionamento è quindi l’uso del silenzio posizionale come concetto matematico, geometrico e in generale logico; ed anche qui è possibile ricostruire una genesi basata sull’utilità aritmetica del concetto, per quanto incerto, di zero a fianco di una riflessione più astratta riguardo al vuoto spaziale.
Tutte declinazioni percorribili, ancora una volta, del rapporto fra il continuum dell’essere e il discreto che si apre sul nulla: se fosse un pitagorico a condurre il ragionamento, potrebbe anche ulteriormente specificare il contrasto fondamentale ponendo l’analogia fra silenzio come apertura e suono come chiusura, con una semplice estensione del paradigma aritmologico e geometrico sulle caratteristiche dei numeri pari e dei dispari, i pari in questo modello interpretativo associati al silenzio.
È la fisica a fornire, d’altronde, una ulteriore sfaccettatura ad un ragionamento che rischia di avvitarsi soltanto in una dimensione metafisica. La matematica sottesa alle moderne teorie sulla costituzione della materia (la punta più avanzata dunque della odierna “filosofia naturale” della nostra cultura occidentale) e grazie ad essa tutta la produzione di esperimenti e di esperienze sul mondo atomico e subatomico, ha mostrato e confermato scientificamente negli ultimi decenni il fatto fisico che dal “nulla” — con più precisione: dal vuoto quantistico — si generano particelle continuamente. Esse hanno, negli attuali modelli interpretativi della fisica subatomica e secondo le osservazioni sperimentali, vita brevissima ma intensissima in termini di energia, creandosi e annichilendosi continuamente anche al di là dei limiti per ora imposti alla nostra tecnologia per osservarne la totalità fenomenica. È chiaro come quest’ultima osservazione sia così tanto gravida di conseguenze da portare immediatamente al dilemma iniziale sulla possibilità gnoseologica di risolvere la questione principale dell’ontologia; ed è già estremamente problematico dirimere i diversi paradossi che da questo limite posto dalla finitudine umana derivano alla scienza in tutti i suoi aspetti, epistemologici ed ermeneutici. Potrà mai un esperimento esaurire la richiesta di informazione sulla realtà osservata? L’interpretazione di questo fatto sperimentale è “altra cosa” rispetto al fatto osservato? Dunque le fluttuazioni quantistiche del vuoto da cui gli strumenti vedono emergere particelle e anti-particelle, che legame hanno con queste stesse manifestazioni? Quale statuto ontologico hanno questi “fenomeni sperimentati” rispetto ai “fenomeni sperimentali” della teoria, e soprattutto quale statuto ontologico hanno le “fluttuazioni” del vuoto stesso?
Singolare, strabiliante è in ogni caso il fatto (che risulterebbe densissimo di conseguenze in una interpretazione del silenzio all’interno di un paradigma biologico col concetto di superorganismo e le declinazioni in termini di semiosfera) dell’analogia fra la descrizione della fisica quantistica di questo vuoto dal quale emerge una realtà — passeggera, effimera, estremamente volatile quanto si voglia ma “sperimentabile” e “sperimentata”, esperibile (fatti salvi i dilemmi epistemologici ed ermeneutici di cui poco sopra) —, e la metafora del discorso religioso (occidentale e orientale, pur nella diversità dei linguaggi) che vede nell’apertura creata dal vuoto e dal silenzio di fronte alla divinità nella meditazione, nella preghiera, la condizione necessaria affinché emerga la divinità nell’uomo e questa stessa divinità possa essere accolta, sperimentata appunto. Ma allo stesso modo l’intepretazione di Copenhagen della fisica quantistica (il modello cioè più ampiamente condiviso per la lettura e la comprensione della realtà atomica e subatomica, che per quanto sia inevitabilmente ancora oggetto di svariate sperimentazioni tese a mostrarne la validità e a cercare di falsificarne le previsioni al fine di corroborare la teoria stessa, è ugualmente il più produttivo di risultati validi e fecondi) afferma e mostra come quel vuoto di silenzio fisico sia “produttivo” di informazione (dunque, in termini fisici, di energia) e dalla sua caratteristica di apertura emerga la realtà. Le ricerche teoriche di Max Tegmark hanno mostrato fin dal 2014 come una possibile soluzione a tanti dilemmi matematici e fisici della teoria quantistica sia superabile attraverso il costrutto algebrico del “tensore di fattorizzazione matriciale”, che in semplici parole non banali è uno strumento matematico che consente di unificare alcuni aspetti caratteristici delle dimensioni fisiche dei sistemi quantistici in uno stato fondamentale della materia ulteriore rispetto a quelli classici solido, liquido e gassoso, chiamato “perceptonio” ed equivalente alla coscienza, che è sostanzialmente informazione. La teoria di Tegmark mostra come sia possibile descrivere in maniera elegante e precisa i risultati delle osservazioni sperimentali in modo da mettere in luce la conservazione dell’energia dei sistemi fisici, l’invarianza di scala energetica di questi fenomeni e dunque della realtà, e di spiegare come possa appunto dal vuoto quantistico, dal silenzio quindi, crearsi spontaneamente l’informazione sotto forma di realtà delle particelle osservate attraverso lo stato “perceptonio” della materia, dunque la coscienza che unifica osservatore ed osservato nell’esperimento complessivo che è la realtà quale noi la sperimentiamo ogni istante.
Rimane la possibilità di analizzare la questione gnoseologica à la Berkeley: il silenzio esiste solo “per noi” e non “per sé”? In altri termini, si tratta di stabilire se esso esista perché lo osserviamo, dunque in quanto e in tanto che lo osserviamo e ne facciamo esperienza, o se esso sia un nostro costrutto interpretativo e non abbia realtà autonoma: dunque non è solo la questione metafisica dell’esistenza degli impossibili, ma ancora una volta la questione mereologica prima e ontologica di fondo.
Esso è un fatto esclusivamente umano? In una teologia razionale, è possibile predicare un silenzio per Dio e di Dio? Di questo, forse, il discorso religioso dice di più: se in tutte le religioni storicamente attestate la divinità crea il Mondo con un atto di parola (in forme diverse, è banale dirlo, ma questa è una costante di tutte le epoche e di tutte le forme), il silenzio è il suo non-fare al termine della Creazione, oppure quel fatto della ierostoria per cui la stabilità dell’essere cessa ed il Mondo dunque termina la sua esistenza? Se la divinità è rinvenibile per noi uomini come Parola e questa dunque fonda e mantiene l’essere del Mondo, il Silenzio è il movimento del divenire delle cose per cui il suo totale dispiegamento come definitiva “assenza della Parola di Dio” determinerà la fine del Mondo stesso?
Nella sfera delle religioni abramitiche, se il primo silenzio di Dio è quello del sabato in cui termina la Creazione del Mondo e dell’uomo, questo silenzio è anche il limite della libertà che Egli ha “concesso” (“imposto”?) all’umanità? Il silenzio ha dunque doppia natura: da un lato sarebbe, nello svolgersi della storia dell’umanità, il dispiegamento del divenire della Parola fino al suo compimento apocalittico; ma questo dispiegamento è quello del potere del Maligno — il silenzio sarebbe lo spazio in cui Satana si insinua. Dall’altra parte la Parola di Dio risuona nel Paradiso ma lascia un vuoto in cui disporre della libertà di errare, per far sì che la ierostoria dell’Incarnazione della Parola possa redimere il Mondo da quell’errore. La libertà di questo Mondo è il divenire, passibile del Male nel silenzio dell’assenza della Parola; la libertà dei Cieli Nuovi e della Terra Nuova sarà l’essere sonoro eterno, non diveniente.

Silenzio come “potenza”
Ove fosse possibile argomentare così in una teologia razionale, il silenzio sarebbe associato dunque ad una proporzione con la potenza ontologica rispetto alla parola come atto ontologico. Ma anche dal punto di vista di una fisica razionale la potenza si individua come base del divenire rispetto all’essere: siamo in un paradigma pienamente aristotelico.
Eppure in un ragionamento portato alle estreme conseguenze, la “Potenza Infinita” è un “Divenire Infinito”, ma quindi anche, per quanto detto or ora, un “Silenzio Infinito”; e con un metodo à la Cusano, questo Divenire Infinito, questo Silenzio Infinito, è per noi, limitati e finiti, l’Essere stesso statico e perfetto (nel senso di perfectum, “compiuto”, ancora una volta anche secondo un paradigma pitagorico); anche la fisica relativistica di Einstein però offre un analogo risultato interpretativo nell’analisi del cronotopo, ed è singolare come vi sia continuità ermeneutica pur nella diversità dei linguaggi utilizzati.
Dalla considerazione di ciò si può spiegare geneticamente la presenza in tutte le religioni di una teologia apofatica in quanto tentativo “razionale”, umano, di comprendere il Silenzio divino proprio: di Dio noi non possiamo dire nulla e possiamo dire tutto in negativo, conformandoci a quello che per noi, fallibili, limitati, incapaci di profondità intellettiva verso il mistero dell’alterità divina, è il suo pieno silenzio creatore. Il positivo che potremmo dire della divinità sarebbe sempre e comunque un artefatto della nostra comprensione (anche all’interno di una teologia razionale) limitato, inefficace, ombra della verità che è oscurità splendente — per cercare di imitare i paradossi verbali del linguaggio mistico. Tale è il silenzio della divinità: oscurità splendente anche quando si manifesta nel male, nella malattia, nella morte, così come lo si è chiamato nella riflessione novecentesca spinta dagli eventi della storia.
Di ciò, della presenza forte di una teologia apofatica in tutte le religioni e di una sua continua produzione in tutte le epoche ed anche ai nostri giorni in cui tutto sembra deviato e spostato verso la comunicazione “piena” (estremamente problematico e denso affrontare questo aspetto del silenzio nella nostra epoca), è naturale conseguenza l’esichia come metodo di meditazione e la mistica in quanto dimensione di esperienza del Divenire Infinito. La creazione del silenzio equivale all’apertura verso il silenzio della divinità di modo che possa emergere la Sua parola.
Michel de Certeau nel suo saggio Fabula mistica scrisse che “La parola mistica è un artefatto del silenzio. Crea del silenzio nel rumore delle parole”: dunque, nell’ottica del filosofo francese “rumore” potrebbe essere un sinonimo di quello stato che la fisica meccanica razionale, così come la teoria dell’informazione classica, associa al “caldo, disordine”, mentre “silenzio” sarebbe sinonimo, nel medesimo modello fisico, di “freddo, ordine”: è la questione dell’entropia e dunque del livello di energia libera di un sistema e dell’informazione che da ciò deriva per un osservatore del sistema stesso. Ma è la questione, variando la scala degli ordini di grandezza, del paradigma biologico e in esso del concetto di superorganismo di cui dicevamo sopra: come dal vuoto quantistico emerge l’essere delle particelle elementari, manifestazioni particolari del cronotopo in quella determinata regione analizzata negli esperimenti di laboratorio, così nel silenzio della preghiera e della meditazione è possibile rispecchiarsi nel silenzio di Dio per ascoltarne la parola, così ancor più nel mythos, nella parola mistica si può trovare il rispecchiamento della creazione divina, o in un’ottica non teologica, la creazione attraverso il linguaggio, dunque la poesia.
Quanto tutto ciò sia debitore del silenzio è dunque evidente, e magnificamente vero.

Qualche lettura
Restando chiaramente vastissimo l’orizzonte di analisi di una riflessione sul silenzio, alcune letture possono risultare utili per approfondire ulteriormente le diverse questioni poste, sapendo con certezza che molti aspetti non sono nemmeno stati toccati in queste brevi righe estemporanee (specie tutto il versante psicologico sul valore del silenzio stesso in ottica personale e sociale).

Il saggio di zoosemiotica di Umberto Eco, Sul latrato del cane, pubblicato dapprima in Dall’albero al labirinto, Bompiani, Milano 2007 e poi in Scritti sul pensiero medievale dalla stessa casa editrice nel 2012, offre una succosa digressione sul tema delle voces animalium dall’antichità al medioevo.
Il saggio di Immanuel Kant, Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative, pubblicato nel 1763, si legge in traduzione nell’edizione degli Scritti precritici, a cura di Angelo Pupi, Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, Laterza, Roma-Bari 1982, mentre il saggio di Ernst Cassirer, Sostanza e funzione, pubblicato nel 1910, si legge nell’edizione di Sostanza e funzione – Sulla teorià della relatività di Einstein, presentazione di Giulio Preti, La Nuova Italia, Firenze 1973.
Il concetto di semiosfera è stato introdotto da Jurij Michailovič Lotman nel suo saggio La semiosfera. L'asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia, 1985, e di lui si legge con grande interesse anche La cultura come mente collettiva e i problemi della intelligenza artificiale, pubblicato nei “Documenti di lavoro e pre-pubblicazioni” del Centro Internazionale di Semiotica e Linguistica dell’Università di Urbino (n.66, 1977).
Il concetto di ierostoria è stato introdotto da Henry Corbin nella sua Storia della filosofia islamica, pubblicata nel 1964 (in Italia presso Adelphi, Milano 1973) e poi utilizzato in tutte le sue opere successive.
Il concetto di superorganismo (con una lunga e variegata storia che andrebbe tracciata a ritroso nel Novecento almeno a partire dalla riflessione del teologo e paleontologo Pierre Teilhard de Chardin, e alla fine dell’Ottocento con i saggi naturalistici sulla vita delle api, delle formiche e delle termiti ad opera di Maurice Maeterlinck) è stato ampiamente diffuso dal biologo Edward Osborne Wilson in saggi fondamentali come Biofilia, Mondadori, Milano 1985, o quello scritto in collaborazione con Bert Hölldobler, Il Superorganismo, Adelphi, Milano 2009, o ancora La conquista sociale della Terra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012.
La numerosissima letteratura sull’esicasmo e la pratica dell’esichia è tutta fondata sulla lettura della Filocalia, la grande antologia di spiritualità ortodossa esicasta pubblicata a Venezia a cura di Nicodimo del Monte Athos e Macario di Corinto nel 1782, e in edizione moderna con la traduzione, introduzione e note di M. Benedetta Artioli e M. Francesca Lovato, presso la casa editrice Gribaudi di Torino fra il 1982 e il 1987. Grandissima utilità ha anche la lettura dei trattati di Gregorio Palamas pubblicati in edizione complessiva in Tutte le opere, a cura di Ettore Perrella, Bompiani, Milano 2009.
Sul “perceptonio” e sulla coscienza come quarto stato fondamentale della materia il saggio seminale è l’articolo di Max Tegmark, Consciousness as a State of Matter, pubblicato per la prima volta nel gennaio 2014 e riveduto infine nel marzo 2015 e disponibile su arXiv.org (il grande repository online di articoli scientifici della Cornell University Library) all’indirizzo https://arxiv.org/abs/1401.1219. A livello divulgativo di Tegmark si può leggere sul tema del “perceptonio” appunto il saggio L' universo matematico. La ricerca della natura ultima della realtà, Bollati Boringhieri, Torino 2014, e sul tema del superorganismo il recentissimo Vita 3.0. Essere umani nell'era dell'intelligenza artificiale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.
Sul silenzio di Dio e la teologia apofatica (la cui letteratura critica è sterminata), oltre alle opere menzionate sopra per l’esicasmo e l’esichia anzitutto le pagine di Sergio Quinzio nel saggio omonimo, Silenzio di Dio, Mondadori, Milano 1982; il saggio di Richard Muers, Keeping God’s Silence. Towards a Theological Ethics of Communication, Blackwell, Oxford 2004; il saggio di Denys Τurner, The Darkness of God. Negativity in Christian Mysticism, Cambridge University Press, New York 1995 e la raccolta curata dallo stesso Turner e da Oliver Davies, Silence and the Word. Negative Theology and Incarnation, Cambridge University Press, New York 2004; il saggio di Raoul Mortley, From Word to Silence. The Rise and Fall of Logos. The Way of Negation, Christian and Greek, Peter Hanstein Verlag, Bonn 1986. Almeno un’opera di ambito orientale da segnalare per iniziare un percorso di approfondimento è il commento al Sutra del Cuore (uno dei capisaldi del pensiero buddhista mahāyāna) scritto da Khenpo Palden Sherab Rinpoche, Ceaseless Echoes of the Great Silence. A Commentary on The Heart Sutra – Prajnāpāramitā, Sky Dancer Press, Boca Raton (Florida, USA) 1993.
Un densissimo studio sulla sintassi comparata e le questioni delle “posizioni vuote” e degli elementi silenti del linguaggio è quello di Richard S. Kayne, Movement and Silence, Oxford University Press, Oxford 2005.