Silenzio come “vuoto”È quasi banale pensare
al silenzio seguendo le definizioni
dei dizionari — e già questo potrebbe essere sintomatico di una modalità di
conoscenza, quella che cerca anzitutto di associare le parole alle cose
attraverso un vocabolario e non
primariamente attraverso un’enciclopedia,
ammesso che invece nel pensiero spontaneo e meno ordinato non si segua invece
la via opposta.
Silenzio come “nulla”
Silenzio come “nulla”
Silenzio sarebbe
quindi “assenza di suono”: definizione in negativo quindi, come a dire che
ontologicamente, e non solo cognitivamente, il prius sia il suono, che questo
suono dunque precede il silenzio, e non questo silenzio la base per il fatto
d’esperienza dell’uno e dell’altro fenomeno acustico.
Un sinonimo potrebbe
essere quindi, generalizzando i dati di esperienza, quello di vuoto contrapposto perciò ad un pieno,
stante l’assenza necessaria a
definire il silenzio. Più radicale però rispetto ad altri contrasti
strutturalmente simili perché polarizzati, come “luce” e “buio”, il contrasto
fra silenzio e suono tende a quello semanticamente fondamentale fra essere e non-essere. Anche in questo caso infatti si viene fortemente
attratti verso la conclusione dell’estensione massima e dell’intesione minima:
il suono è “qualsiasi fenomeno
acustico”, il silenzio appunto la sua
assenza; e se nel suono possiamo
riconoscere almeno la gradazione del rumore
(incerta, fallibile, poco commerciabile come nel contrasto fra “bello” e
“brutto”) che però subito sposta il giudizio verso questioni “esterne” come il
ricorso all’idea e al successivo concetto di “armonia” — ancor più problematica
—, il silenzio non conosce altro che
l’intensione massima negativa. Kant e Cassirer avrebbero ragionato molto su
questo concetto della “quantità negativa”, non a caso: ma siamo sempre non
lontani dalla considerazione di un ragionamento sub genere sonitus e sub
specie silentii, e la storia della riflessione occidentale ha fra l’altro
maggiormente posto l’accento sulla dimensione umana di questo contrasto fra silenzio e suono, perché quest’ultimo è stato principalmente declinato come vox, il suono umano e caratterizzante —
bello sarebbe ripercorrere le tappe delle riflessioni medievali sulle voces animalium e la dinamica di
formazione del concetto di suono “umano” appunto per i filosofi dell’epoca.
Se la posizione analitica
è quella generalmente ontologica, per cui vi è una analogia fra silenzio e vuoto da un lato e fra suono
e pieno dall’altro, questa stessa può
essere estesa ulteriormente e massimizzata con la proporzione di silenzio come nulla e suono come essere. Porre il silenzio come nulla
(dunque positivamente) e non semplicemente come non-essere secondo la definizione in negativo consente di cercare
di applicare una mereologia, e avvicinare l’analisi al sorite per cui il silenzio non è esclusivamente definibile
in termini logici ma va indagato fenomenologicamente, anche in modo ingenuo,
facendolo quindi emergere ontologicamente, fondandolo, ponendolo e predicandolo.
È chiaro che con questo
spostamento concettuale il silenzio
come evoluzione analitica del vuoto e
del nulla assume su di sé ancor di
più la problematicità di quell’è, della
questione parmenidea quindi con tutto quel che ne deriva per il fondamento
della cultura occidentale, perché esso entra quindi a pieno titolo, col sorite
di cui si accennava sopra, nel dilemma del divenire: quando inizia il silenzio, e quando finisce? Da una questione ontologica la
posizione è divenuta una questione gnoseologica perciò; ma tale spostamento
consente di analizzare altrimenti lo statuto del silenzio, appunto attraverso una mereologia che sfuma e rende più
flessibili i confini di quel contrasto polarizzato iniziale. Attraverso questo
spostamento del silenzio in quanto
“parte” predicabile nell’ontologia del fatto acustico se ne riconosce il valore
posizionale: facile ritrovarlo come un analogo in linguistica, nelle
manifestazioni storicamente attestate dei vari sistemi di scrittura, nella
musica, nel pensiero logico-matematico attraverso lo zero ed il vuoto. Anzi,
se si volesse indagare in una prospettiva genetica la casistica del silenzio nelle forme culturali della
storia dell’umanità lo si vedrebbe appunto emergere dal continuum che ha caratterizzato i primi stadi di queste espressioni
dell’intelligenza collettiva: la scriptio
continua di quasi tutti i sistemi di scrittura non prevede il “silenzio
grafico” ed è ancorata ad una ontologia dualista fra “lettere” (nelle varie
forme dei pittogrammi, ideogrammi, segni sillabici, segni consonantici e poi
segni diacritici per le vocali in primo luogo e poi per la punteggiatura) e una
“posizione vuota” che emerge via via che si impone una mereologia più sfumata e
variegata rispetto al dualismo originario. Allo stesso modo, se la musica e la
fonazione impongono per loro essenza l’alternanza di vuoto e pieno (così come
le prime espressioni ritmiche della spazialità artificiale, modellate
sull’analogia anatomica umana), la sintassi delle lingue conosciute ha
individuato nelle loro fasi iniziali una prevalenza del “pieno espressivo” e
solo dopo ha visto la comparsa della “posizione vuota” manifestata con gli
elementi del discorso sottintesi, non esplicitati, e dunque silenti. Fondamentale e imprescindibile
per tutto il ragionamento è quindi l’uso del silenzio posizionale come concetto matematico, geometrico e in
generale logico; ed anche qui è possibile ricostruire una genesi basata
sull’utilità aritmetica del concetto, per quanto incerto, di zero a fianco di una riflessione più
astratta riguardo al vuoto spaziale.
Tutte declinazioni
percorribili, ancora una volta, del rapporto fra il continuum dell’essere e
il discreto che si apre sul nulla: se fosse un pitagorico a condurre
il ragionamento, potrebbe anche ulteriormente specificare il contrasto
fondamentale ponendo l’analogia fra silenzio
come apertura e suono come chiusura, con
una semplice estensione del paradigma aritmologico e geometrico sulle
caratteristiche dei numeri pari e dei dispari, i pari in questo modello
interpretativo associati al silenzio.
È la fisica a fornire,
d’altronde, una ulteriore sfaccettatura ad un ragionamento che rischia di
avvitarsi soltanto in una dimensione metafisica. La matematica sottesa alle
moderne teorie sulla costituzione della materia (la punta più avanzata dunque
della odierna “filosofia naturale” della nostra cultura occidentale) e grazie
ad essa tutta la produzione di esperimenti e di esperienze sul mondo atomico e
subatomico, ha mostrato e confermato scientificamente negli ultimi decenni il
fatto fisico che dal “nulla” — con più precisione: dal vuoto quantistico — si generano particelle continuamente. Esse
hanno, negli attuali modelli interpretativi della fisica subatomica e secondo
le osservazioni sperimentali, vita brevissima ma intensissima in termini di
energia, creandosi e annichilendosi continuamente anche al di là dei limiti per
ora imposti alla nostra tecnologia per osservarne la totalità fenomenica. È
chiaro come quest’ultima osservazione sia così tanto gravida di conseguenze da
portare immediatamente al dilemma iniziale sulla possibilità gnoseologica di risolvere
la questione principale dell’ontologia; ed è già estremamente problematico
dirimere i diversi paradossi che da questo limite posto dalla finitudine umana
derivano alla scienza in tutti i suoi aspetti, epistemologici ed ermeneutici.
Potrà mai un esperimento esaurire la
richiesta di informazione sulla realtà osservata? L’interpretazione di questo fatto sperimentale è “altra cosa”
rispetto al fatto osservato? Dunque le fluttuazioni quantistiche del vuoto da cui gli strumenti vedono emergere particelle e anti-particelle,
che legame hanno con queste stesse manifestazioni? Quale statuto ontologico
hanno questi “fenomeni sperimentati” rispetto ai “fenomeni sperimentali” della
teoria, e soprattutto quale statuto ontologico hanno le “fluttuazioni” del vuoto stesso?
Singolare, strabiliante è
in ogni caso il fatto (che risulterebbe densissimo di conseguenze in una
interpretazione del silenzio all’interno di un paradigma biologico col concetto
di superorganismo e le declinazioni
in termini di semiosfera) dell’analogia
fra la descrizione della fisica quantistica di questo vuoto dal quale emerge
una realtà — passeggera, effimera, estremamente volatile quanto si voglia ma
“sperimentabile” e “sperimentata”, esperibile (fatti salvi i dilemmi
epistemologici ed ermeneutici di cui poco sopra) —, e la metafora del discorso
religioso (occidentale e orientale, pur nella diversità dei linguaggi) che vede
nell’apertura creata dal vuoto e dal silenzio di fronte alla divinità nella meditazione, nella
preghiera, la condizione necessaria affinché emerga la divinità nell’uomo e questa stessa divinità possa essere
accolta, sperimentata appunto. Ma allo stesso modo l’intepretazione di Copenhagen della fisica quantistica (il modello
cioè più ampiamente condiviso per la lettura e la comprensione della realtà
atomica e subatomica, che per quanto sia inevitabilmente ancora oggetto di
svariate sperimentazioni tese a mostrarne la validità e a cercare di
falsificarne le previsioni al fine di corroborare la teoria stessa, è
ugualmente il più produttivo di risultati validi e fecondi) afferma e mostra
come quel vuoto di silenzio fisico sia “produttivo” di
informazione (dunque, in termini fisici, di energia) e dalla sua caratteristica
di apertura emerga la realtà. Le
ricerche teoriche di Max Tegmark hanno mostrato fin dal 2014 come una possibile
soluzione a tanti dilemmi matematici e fisici della teoria quantistica sia
superabile attraverso il costrutto algebrico del “tensore di fattorizzazione
matriciale”, che in semplici parole non banali è uno strumento matematico che
consente di unificare alcuni aspetti caratteristici delle dimensioni fisiche
dei sistemi quantistici in uno stato fondamentale della materia ulteriore
rispetto a quelli classici solido, liquido e gassoso, chiamato “perceptonio” ed
equivalente alla coscienza, che è sostanzialmente informazione. La teoria di
Tegmark mostra come sia possibile descrivere in maniera elegante e precisa i
risultati delle osservazioni sperimentali in modo da mettere in luce la
conservazione dell’energia dei sistemi fisici, l’invarianza di scala energetica
di questi fenomeni e dunque della realtà, e di spiegare come possa appunto dal vuoto quantistico, dal silenzio quindi, crearsi spontaneamente
l’informazione sotto forma di realtà delle particelle osservate attraverso lo
stato “perceptonio” della materia, dunque la coscienza che unifica osservatore
ed osservato nell’esperimento complessivo che è la realtà quale noi la
sperimentiamo ogni istante.
Rimane la possibilità di
analizzare la questione gnoseologica à la
Berkeley: il silenzio esiste solo
“per noi” e non “per sé”? In altri termini, si tratta di stabilire se esso
esista perché lo osserviamo, dunque in quanto e in tanto che lo osserviamo e
ne facciamo esperienza, o se esso sia un nostro costrutto interpretativo e non
abbia realtà autonoma: dunque non è solo la questione metafisica dell’esistenza
degli impossibili, ma ancora una volta la questione mereologica prima e ontologica
di fondo.
Esso è un fatto
esclusivamente umano? In una teologia razionale, è possibile predicare un
silenzio per Dio e di Dio? Di questo, forse, il discorso
religioso dice di più: se in tutte le religioni storicamente attestate la
divinità crea il Mondo con un atto di parola (in forme diverse, è banale dirlo,
ma questa è una costante di tutte le epoche e di tutte le forme), il silenzio è
il suo non-fare al termine della
Creazione, oppure quel fatto della ierostoria per cui la stabilità dell’essere
cessa ed il Mondo dunque termina la sua esistenza? Se la divinità è rinvenibile
per noi uomini come Parola e questa dunque fonda e mantiene l’essere del Mondo,
il Silenzio è il movimento del divenire delle cose per cui il suo totale
dispiegamento come definitiva “assenza della Parola di Dio” determinerà la fine
del Mondo stesso?
Nella sfera delle
religioni abramitiche, se il primo silenzio
di Dio è quello del sabato in cui termina la Creazione del Mondo e
dell’uomo, questo silenzio è anche il limite della libertà che Egli ha “concesso” (“imposto”?) all’umanità? Il
silenzio ha dunque doppia natura: da un lato sarebbe, nello svolgersi della
storia dell’umanità, il dispiegamento del divenire della Parola fino al suo
compimento apocalittico; ma questo dispiegamento è quello del potere del
Maligno — il silenzio sarebbe lo
spazio in cui Satana si insinua. Dall’altra parte la Parola di Dio risuona nel
Paradiso ma lascia un vuoto in cui
disporre della libertà di errare, per far sì che la ierostoria
dell’Incarnazione della Parola possa redimere il Mondo da quell’errore. La
libertà di questo Mondo è il divenire, passibile del Male nel silenzio
dell’assenza della Parola; la libertà dei Cieli Nuovi e della Terra Nuova sarà
l’essere sonoro eterno, non diveniente.
Silenzio
come “potenza”
Ove fosse possibile
argomentare così in una teologia razionale, il silenzio sarebbe associato dunque ad una proporzione con la potenza ontologica rispetto alla parola come atto ontologico. Ma anche dal punto di vista di una fisica
razionale la potenza si individua
come base del divenire rispetto all’essere: siamo in un paradigma pienamente
aristotelico.
Eppure in un ragionamento
portato alle estreme conseguenze, la “Potenza Infinita” è un “Divenire
Infinito”, ma quindi anche, per quanto detto or ora, un “Silenzio Infinito”; e
con un metodo à la Cusano, questo
Divenire Infinito, questo Silenzio Infinito, è per noi, limitati e finiti,
l’Essere stesso statico e perfetto (nel senso di perfectum, “compiuto”, ancora una volta anche secondo un paradigma
pitagorico); anche la fisica relativistica di Einstein però offre un analogo
risultato interpretativo nell’analisi del cronotopo, ed è singolare come vi sia
continuità ermeneutica pur nella diversità dei linguaggi utilizzati.
Dalla considerazione di
ciò si può spiegare geneticamente la presenza in tutte le religioni di una
teologia apofatica in quanto tentativo “razionale”, umano, di comprendere il
Silenzio divino proprio: di Dio noi non possiamo dire nulla e possiamo dire
tutto in negativo, conformandoci a quello che per noi, fallibili, limitati,
incapaci di profondità intellettiva verso il mistero dell’alterità divina, è il
suo pieno silenzio creatore. Il positivo che potremmo dire della divinità
sarebbe sempre e comunque un artefatto della nostra comprensione (anche
all’interno di una teologia razionale) limitato, inefficace, ombra della verità
che è oscurità splendente — per cercare di imitare i paradossi verbali del
linguaggio mistico. Tale è il silenzio
della divinità: oscurità splendente anche quando si manifesta nel male, nella
malattia, nella morte, così come lo si è chiamato nella riflessione
novecentesca spinta dagli eventi della storia.
Di ciò, della presenza
forte di una teologia apofatica in tutte le religioni e di una sua continua
produzione in tutte le epoche ed anche ai nostri giorni in cui tutto sembra
deviato e spostato verso la comunicazione “piena” (estremamente problematico e
denso affrontare questo aspetto del silenzio
nella nostra epoca), è naturale conseguenza l’esichia come metodo di meditazione e la mistica in quanto
dimensione di esperienza del Divenire Infinito. La creazione del silenzio equivale all’apertura verso il silenzio della divinità di modo che possa emergere la Sua parola.
Michel de Certeau nel suo
saggio Fabula mistica scrisse che “La parola mistica è un artefatto del
silenzio. Crea del silenzio nel rumore delle parole”: dunque, nell’ottica
del filosofo francese “rumore” potrebbe essere un sinonimo di quello stato che
la fisica meccanica razionale, così come la teoria dell’informazione classica,
associa al “caldo, disordine”, mentre “silenzio” sarebbe sinonimo, nel medesimo
modello fisico, di “freddo, ordine”: è la questione dell’entropia e dunque del
livello di energia libera di un sistema e dell’informazione che da ciò deriva
per un osservatore del sistema stesso. Ma è la questione, variando la scala
degli ordini di grandezza, del paradigma biologico e in esso del concetto di superorganismo di cui dicevamo sopra:
come dal vuoto quantistico emerge l’essere delle particelle elementari,
manifestazioni particolari del cronotopo in quella determinata regione
analizzata negli esperimenti di laboratorio, così nel silenzio della preghiera e della meditazione è possibile
rispecchiarsi nel silenzio di Dio per
ascoltarne la parola, così ancor più nel mythos,
nella parola mistica si può trovare
il rispecchiamento della creazione divina, o in un’ottica non teologica, la creazione
attraverso il linguaggio, dunque la poesia.
Quanto tutto ciò sia
debitore del silenzio è dunque evidente,
e magnificamente vero.
Qualche
lettura
Restando chiaramente
vastissimo l’orizzonte di analisi di una riflessione sul silenzio, alcune
letture possono risultare utili per approfondire ulteriormente le diverse
questioni poste, sapendo con certezza che molti aspetti non sono nemmeno stati
toccati in queste brevi righe estemporanee (specie tutto il versante
psicologico sul valore del silenzio stesso in ottica personale e sociale).
Il saggio di zoosemiotica
di Umberto Eco, Sul latrato del cane, pubblicato
dapprima in Dall’albero al labirinto,
Bompiani, Milano 2007 e poi in Scritti
sul pensiero medievale dalla stessa casa editrice nel 2012, offre una
succosa digressione sul tema delle voces
animalium dall’antichità al medioevo.
Il saggio di Immanuel Kant, Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità
negative, pubblicato nel 1763, si legge in traduzione nell’edizione degli Scritti precritici, a cura di Angelo
Pupi, Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, Laterza, Roma-Bari 1982, mentre il
saggio di Ernst Cassirer, Sostanza e funzione, pubblicato nel
1910, si legge nell’edizione di Sostanza
e funzione – Sulla teorià della relatività di Einstein, presentazione di
Giulio Preti, La Nuova Italia, Firenze 1973.
Il concetto di semiosfera è stato introdotto da Jurij
Michailovič Lotman nel suo saggio La semiosfera. L'asimmetria e il dialogo
nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia, 1985, e di lui si legge con
grande interesse anche La cultura come
mente collettiva e i problemi della intelligenza artificiale, pubblicato
nei “Documenti di lavoro e pre-pubblicazioni” del Centro Internazionale di
Semiotica e Linguistica dell’Università di Urbino (n.66, 1977).
Il concetto di ierostoria è stato introdotto da Henry Corbin nella sua Storia della filosofia islamica, pubblicata nel 1964 (in Italia
presso Adelphi, Milano 1973) e poi utilizzato in tutte le sue opere successive.
Il concetto di superorganismo (con una lunga e
variegata storia che andrebbe tracciata a ritroso nel Novecento almeno a
partire dalla riflessione del teologo e paleontologo Pierre Teilhard de Chardin, e alla fine
dell’Ottocento con i saggi naturalistici sulla vita delle api, delle formiche e
delle termiti ad opera di Maurice
Maeterlinck) è stato
ampiamente diffuso dal biologo Edward Osborne Wilson
in saggi fondamentali come Biofilia,
Mondadori, Milano 1985, o quello scritto in collaborazione con Bert Hölldobler, Il Superorganismo, Adelphi, Milano 2009, o ancora La conquista sociale della Terra,
Raffaello Cortina Editore, Milano 2012.
La numerosissima
letteratura sull’esicasmo e la pratica dell’esichia è tutta fondata sulla
lettura della Filocalia, la grande
antologia di spiritualità ortodossa esicasta pubblicata a Venezia a cura di Nicodimo del Monte Athos e Macario di Corinto nel 1782, e in
edizione moderna con la traduzione, introduzione e note di M. Benedetta Artioli
e M. Francesca Lovato, presso la casa editrice Gribaudi di Torino fra il 1982 e
il 1987. Grandissima utilità ha anche la lettura dei trattati di Gregorio Palamas pubblicati in edizione
complessiva in Tutte le opere, a cura
di Ettore Perrella, Bompiani, Milano 2009.
Sul “perceptonio” e sulla
coscienza come quarto stato fondamentale della materia il saggio seminale è
l’articolo di Max Tegmark, Consciousness as a State of Matter,
pubblicato per la prima volta nel gennaio 2014 e riveduto infine nel marzo 2015
e disponibile su arXiv.org (il grande repository online di articoli scientifici
della Cornell University Library) all’indirizzo
https://arxiv.org/abs/1401.1219. A livello divulgativo di Tegmark si può
leggere sul tema del “perceptonio” appunto il saggio L' universo matematico. La ricerca della natura ultima della realtà,
Bollati Boringhieri, Torino 2014, e sul tema del superorganismo il recentissimo Vita
3.0. Essere umani nell'era dell'intelligenza artificiale, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2018.
Sul silenzio di Dio e la teologia apofatica (la cui letteratura critica
è sterminata), oltre alle opere menzionate sopra per l’esicasmo e l’esichia
anzitutto le pagine di Sergio Quinzio
nel saggio omonimo, Silenzio di Dio,
Mondadori, Milano 1982; il saggio di Richard Muers,
Keeping God’s Silence. Towards a Theological
Ethics of Communication, Blackwell, Oxford 2004;
il saggio di Denys Τurner, The Darkness of God. Negativity in Christian
Mysticism, Cambridge University Press, New York 1995 e la raccolta curata
dallo stesso Turner e da Oliver Davies,
Silence and the Word. Negative Theology
and Incarnation, Cambridge University Press, New York 2004; il saggio di
Raoul Mortley, From Word to Silence. The Rise and Fall of Logos. The Way of Negation, Christian and Greek, Peter Hanstein Verlag, Bonn 1986. Almeno un’opera di ambito orientale da segnalare
per iniziare un percorso di approfondimento è il commento al Sutra del Cuore (uno dei capisaldi del
pensiero buddhista mahāyāna) scritto da Khenpo Palden Sherab Rinpoche, Ceaseless Echoes
of the Great Silence. A Commentary on The Heart Sutra – Prajnāpāramitā, Sky Dancer Press, Boca Raton (Florida, USA)
1993.
Un densissimo studio
sulla sintassi comparata e le questioni delle “posizioni vuote” e degli
elementi silenti del linguaggio è quello di Richard S. Kayne, Movement and
Silence, Oxford University Press, Oxford 2005.
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