Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

giovedì 4 aprile 2019

La luce che ritorna dal passato per dirsi con le pieghe del tuo volto. Su "Immagini liberate" di Elio Cardillo


Da cosa si può liberare un’immagine scattata cinquant’anni prima?
Da tre cose: dall’oblio, dalle altre immagini, dalla memoria stessa.
Elio Cardillo ha pubblicato nel 2018 per i tipi della stampeacontatto di Carmelo Gaudioso un libro di fotografie, che ha deciso di intitolare Immagini Liberate, dove sono raccolte circa un centinaio di foto in bianco e nero scattate fra il 1968 ed il 1972 (ma almeno in un caso — “Lucia e Tommaso”, una foto di due giovani abbracciati sulla cattedra di una classe con alle spalle una lavagna — si legge la data del 23 febbraio 1973).
Chi inizia a sfogliare il libro, anche distrattamente quasi come si compulsa un dizionario cercando suggestioni, si rende conto di una verità semplice ma che però non trova scritta da nessuna parte: queste pagine sono il frutto di uno scarto, una selezione, e vanno appunto sfogliate allo stesso modo di un frutto che viene liberato dalla buccia — che si può mangiare, certo, ma nasconde una polpa ancor più sapida.
Viene in mente quel sonetto di Petrarca, il 180 del Canzoniere, Po, ben puo’ tu portartene la scorza: il motivo petrarchesco è facile ed evidente: il fiume Po lungo cui lui viaggia può sì trasportare il suo corpo (la scorza), ma non certo i pensieri ed il suo cuore, che sono rivolti a Laura. E del resto chi legga il Canzoniere di Petrarca sulla linea esegetica delle immagini, non vi trova un diario spirituale fitto di rimandi e intrecci a dipinti, paesaggi, luci ed ombre, che potrebbero in tutto somigliare all’intento narrativo di Elio Cardillo in questo suo volume? In fondo, quando Petrarca nel suo celebre passaggio del Secretum risponde a Sant’Agostino e dice: “adero michi ipse quantum potero et sparsa animae fragmenta recolligam”, cioè “sarò presente a me stesso per quanto potrò e raccoglierò gli sparsi frammenti della [mia] anima”, non sta dicendo nulla di diverso rispetto a quanto dice Cardillo con l’ausilio delle fotografie ma con la singolare dinamica delle sue didascalie poetiche.
Le immagini vanno dunque liberate dall’oblio che le relega in un altrove: a farle tornare vive non è solamente la scelta di metterle insieme per crearne un discorso rievocativo; serve una narrazione, e serve che questa non si ponga come un commento, ma come un percorso che di quelle immagini ritrovi le ragioni dopo cinquant’anni dalla loro fissazione nella macchina da presa e nell’occhio del fotografo. Le didascalie che l’autore ha preparato per ognuno di questi scatti sono un percorso differente, correlato ma per certi versi parzialmente autonomo rispetto alla narrazione iconografica; in esse si trovano le tracce più importanti per comprendere tutta l’operazione estetica che è alle spalle del volume, le ragioni del recolligam che Cardillo, dopo mezzo secolo, decide di intraprendere per liberare le immagini.
Chi legga le parole aggiunte a Monovano trova un primo indizio importante: L'uscio è appena socchiuso ma tanto basta per zittire progetti pieni di mollezze e futilità. Il mio peccato è che ho scordato la mia storia, rinnegando antiche esistenze. Quel tempo però è venuto a trovarci da lontano e da lontano viene lo sguardo della donna: sguardo eterno e il suo sorriso mi trafigge. Sicuramente abbiamo fatto tardi.
Di certo è l’io di Cardillo autore a parlare, a dire che ha scordato la sua storia, rinnegando antiche esistenze; ma è il seguito a svelare una prima molla che ha spinto quel percorso all’indietro: quel tempo però è venuto a trovarci da lontano e da lontano viene lo sguardo della donna: sguardo eterno e il suo sorriso mi trafigge. Sicuramente abbiamo fatto tardi. A fare che cosa?, ci chiediamo. A rimettere insieme i frammenti? A trovarvi un senso? A mostrarlo a quella anziana donna ripresa nella fotografia, o ai suoi familiari ed amici, o ad un pubblico più ampio ed estraneo come quello dei lettori del libro o spettatori della mostra, di modo da farli entrare in quella foto ed in quel tempo lontano che è venuto a trovarci?
I tre tempi a cui noi tutti siamo tanto abituati nella loro universale irreversibile scansione — passato, presente e futuro — da quando è nata la fotografia sono stati cancellati inevitabilmente, anche se non ne abbiamo pienamente preso coscienza, perché siamo così tanto sommersi da immagini in questa nostra che è potentemente deflagrata come una civiltà bulimica dell’immagine, da non rendercene conto. Le immagini liberate quindi sono tali perché si svincolano dal flusso pur immergendosi in esso con la pubblicazione, con le mostre, con l’esposizione al pubblico che è una ostensione di un tempo che non c’è più, letteralmente, tranne che nella memoria o per quella circolarità che la fisica quantistica ci dimostra col rigore della matematica e sempre più con l’evidenza sperimentale. Ogni particella del nostro universo fisico, creata insieme ad altre, ne rimane “intrecciata” nel fenomeno dell’entanglement, l’intreccio appunto, che fa sì da rendere inscindibili le loro proprietà anche se quelle particelle fossero spedite ai due capi opposti dell’Universo astronomico.
Quelle foto, riprese appunto con l’azione delle particelle di luce — i fotoni — e impressionate sulle pellicole toccate da liquidi reagenti e mani che le hanno stese, toccate, spostate, incollate a supporti, stampate e ristampate, sono una realtà che risuona dentro chi le ha scattate e chi le ha viste. Per quanto fantasmagorico e difficilmente intuibile ciò sia, la meccanica quantistica e gli esperimenti scientifici ci dicono che è così.
Allora le immagini liberate sono tali perché si svincolano dalla scansione del tempo tripartito per immergersi nella durata.
È un segnale importante quel che si legge nelle didascalie poetiche di Elio Cardillo aggiunte alle sue fotografie: molte di essere sono narrate al passato o in un eterno presente dell’immagine; e fin qui non vi è nulla di straordinario per un discorso che si affianchi a delle immagini fisse, perché tale è la natura estetica della comunicazione attraverso la fotografia — essa fissa una realtà da cui astrae una dimensione specifica e limitata e la sublima in un oggetto da comtemplare (e la radice è quel cum-temno che alla lettera significa “separo e metto assieme”: dunque ancora Petrarca di cui dicevo) e sul quale riflettere (Narciso ci aiuta; e così Fedro, perché ogni fotografia ci ricorda che de te fabula narratur; e Terenzio ci consola, perché homo sum, humani nihil a me alienum esse puto:sono un uomo, e nulla di ciò che è dell’uomo ritengo mi sia estraneo”).
Ma quando nelle didascalie poetiche Cardillo narra in varie forme linguistiche di futuro, per delle immagini del passato di cinquant’anni fa e immergendosi e tornando con la memoria e l’immaginazione a mezzo secolo addietro, cosa vuol fare se non liberarle dalla memoria stessa e renderle alla loro durata appunto?
Noi abbiamo nella nostra lingua più di un futuro: quello semplice che ci invia verso quel che sarà, quello anteriore che già pone una scansione fra quel che sarà e quel che sarà già stato prima di quel sarà. Ma poi abbiamo anche un futuro epistemico, quello delle ipotesi che non necessariamente riguardano la tripartizione del tempo in passato, presente e futuro, ma le condizioni di quel che può essere: alla domanda “Che ore sono?” noi ad occhio magari guardando il Sole rispondiamo “Saranno le Cinque, più o meno”, con semplicità e senza pretendere tutta la precisione disponibile. Ma abbiamo anche un futuro concessivo, quello che esprime dubbi e correttivi, quello che consente di fare una scelta o di valutare più di una dimensione della realtà: quando di un personaggio famoso diciamo ad esempio che “Sarà pure bravo e bello, ma quando parla...!”, noi con quel futuro concediamo un credito a qualcuno con la nostra fiducia, ma non siamo poi davvero tanto sicuri che nello scorrere del tempo manterremo la nostra opinione.
Ecco: le didascalie di Elio Cardillo in tutte le sezioni del suo volume hanno delle fotografie che sono corredate da una narrazione che ne amplia la durata proprio con questi futuri narrativi, epistemici, concessivi. Ed a leggere fra le didascalie si trova anche un esplicito rimando intertestuale, che costruisce una vera e propria narrazione tradizionale fra immagini che invece non danno nessun indizio di collegamento fra loro: nell’unico caso il rimando si ha fra la SEZIONE “SILENZIO TRASPARENTE” nella foto dell’aratore in “Sudata terra 1 ”: Al ritorno, rovente come la sua falce, spegnerà la sua stanchezza in un bicchiere di vino scadente, e la SEZIONE “VELATA UMANITÀ” nella foto “Garçonniere con dependance”: Si diceva del padrone: forse anche lui un povere diavolo al ritorno con la falce rovente che annega la sua stanchezza in un bicchiere di vino scadente.
Perché quindi parlare al futuro per liberare delle immagini, ma soprattutto perché parlare al futuro per narrare degli eventi passati? Tornano in mente due romanzi bellissimi e poco noti: in primo luogo il romanzo del 1963 intitolato Le Armi l’Amore, scritto da Emilio Tadini e dedicato a raccontare al futuro anteriore, al condizionale passato e all’imperfetto, senza mai usare il presente indicativo, la vicenda storica e personale di Carlo Pisacane e del suo tentativo fallito di rivoluzione popolare nel 1857; in secondo luogo il bellissimo romanzo della scrittrice francese Annie Erneaux intitolato Gli anni, pubblicato nel 2008 in Francia e nel 2015 in Italia, e tutto dedicato alla splendida descrizione di fotografie che hanno segnato la vita dell’autrice. E tornano in mente due bellissime poesie di Wallace Stevens, Il pianeta sul tavolo e Un giorno chiaro e nessuna memoria, entrambe pubblicate ne Il mondo come meditazione, la raccolta postuma del poeta statunitense: una foto è un’opera di luce che mette sul tavolo da un frammento di mondo l’intera nostra esistenza, e la libera dalla schiavitù della memoria per offrirci una presenza.
Cardillo avrebbe potuto (indulgo anch’io, in conclusione, a dei tempi e modi diversi rispetto all’indicativo presente) mostrarci le sue bellissime fotografie e raccoglierle in un volume, anche senza null’altro aggiungere. Ma con le sue didascalie poetiche ci mette nella condizione della durata della visione, che è il compito più importante per una fotografia e la sfida più difficile da affrontare. Saremo arrivati tardi anche noi, come si chiede lui in quella prima didascalia che citavo inizialmente? Sarà la luce che ritorna dal passato/ per dirsi con le pieghe del tuo volto, ricordando i versi del Sommo Poeta, a darci la risposta.

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