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giovedì 4 aprile 2019

Un romanzo di piccoli gesti. Su "Pasticcino al cioccolato" di Elio Cardillo


Si può scrivere un romanzo manzoniano nel duemiladiciannove?
Si può scrivere ed avere ben presente che i romanzi più moderni fra scaffali e librerie di catene commerciali sono scritti tutti quanti (o quasi tutti: il che conferma) con al centro un commissario che risolve dei delitti e magari è un po’ ribelle alle regole assegnate, è un po’ burbero ma sempre affascinante, e ci piace in fondo proprio per quest'aria che ricorda che noi non saremo mai così imperfette ma simpatiche canaglie, e vivremo sempre ai margini cullandoci di sogni?
Si può fare appello al nostro ricordare gli anni fervidi del breve dopoguerra, quei Cinquanta che poi furono preludio al più grande Boom del secolo e che videro la fame e le speranze mescolarsi per far nascere un'Italia che sapesse d'onestà (vi ricorre nei momenti più toccanti fra le pagine l'autore, che non teme di confondersi con chi la grida oggi come fosse una preghiera e non un vanto), di lavoro, di ideali di bontà?

A qualcuno non sarà sfuggito l’omaggio in prosa ritmica per il nuovo romanzo di Elio Cardillo, intitolato Pasticcino al cioccolato, che esce per le edizioni stampeacontatto di Carmelo Gaudioso. La ragione è semplice e scoperta: questo è un romanzo scritto da un poeta, e noi ci troviamo con Elio e con l’orizzonte di paesaggio di queste pagine a Lentini, la terra di Gorgia, il luogo dove è nata la prosa d’arte — quella antike Kunstprosa che ha fatto sorgere con Eduard Norden più di un secolo fa l’interesse per gli artifici retorici non solo in poesia ma anche nei discorsi apparentemente meno “regolati” eppure preziosissimi per le loro architetture formali, come il sofista di Leontinoi e giù giù fino a noi molti altri scrittori hanno saputo mostrare.

Cosa ci dicono, nel duemiladiciannove, la dottoressa Lucia Midolo, farmacista di Siracusa, ed il futuro avvocato Gino Fazio nato e cresciuto a Lentini, figlio di braccianti, se non che dovremmo guardarli un po’ come Renzo Tramaglino e Lucia Mondella? In quei due famosissimi promessi sposi essi si rispecchiano per molte vicissitudini di quei primi anni Cinquanta della Sicilia orientale siracusana, fra il capoluogo di provincia e quella cittadina alacremente impegnata con la produzione ed il commercio delle arance, volta chissà, forse solo sentimentalmente a Siracusa ma già proiettata nell’orbita di Catania come polo economico e culturale di riferimento. Essi parlano di noi: parlano di fughe di cervelli per cercare lavoro — allora in Svizzera per diventare frontalieri; oggi più verso la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, per far valere il merito dei propri studi e delle proprie fatiche; parlano di amori contrastati dal destino e però fiduciosi verso un aiuto provvidenziale, che con pazienza e fatica e saggezza antica e popolare risolverà ogni garbuglio.

Sì, perché questo romanzo è manifestamente manzoniano, e senza alcun timore di apparire antiquato, proprio nei suoi elementi costitutivi: vi domina un senso di profonda commozione verso la vita in ogni suo aspetto, che si parli dei calli sulle mani di Saro Fazio, il padre di Gino, della umilissima casetta abitata e governata da ‘Nzina, la madre del protagonista, o che si parli dell’amore per la caccia di Paolo Midolo, il farmacista padre della protagonista vera e imprescindibile del romanzo, Lucia — nome e segnatura manzoniani sans dire.
Domina, ancor più, una Provvidenza che altrettanto in modo semplice e lampante si disegna come la provvida sventura dello scrittore lombardo, e qui senza le grandi complicazioni teologiche di cui si compiaceva Manzoni per mettere ancor più in risalto l’abbandono fideistico e umilissimo di Lucia (e poi di Renzo) nelle mani del Creatore.
Come un misterioso volere porta Gino e Lucia a incontrarsi fra gli scompartimenti del treno per Catania dove entrambi studiano all’Università (e con sapienza di narratore Elio Cardillo inverte i termini della diegesi e ce li mostra nella prima pagina già in medias res, un po’ spaventati ma eccitatissimi alla Villa Bellini e poi al Bar Savia lì di fronte, a dividere quello che sarà il vero leitmotiv del romanzo, il “pasticcino al cioccolato” del titolo che torna a intervalli regolari come le “stelle” alla fine di ognuna delle tre cantiche dantesche), allo stesso modo misteriosamente, come la Provvidenza manzoniana, quel volere soprannaturale fa morire troppo presto Paolo Midolo poco tempo dopo una battuta di caccia, colpito da un incolpevole amico di lunga data.
Altrettanto misteriosamente il destino si accanisce su Gino quando il padre Saro viene reso inabile da un colposo — ma determinante — incidente sul lavoro durante una protesta sindacale; e così sarà un crescendo soffocante verso un baratro che coglie i due ragazzi non più separati ma apparentemente inermi ogni volta che le scongiure si abbattono su di loro. L’interruzione degli studi per Gino, la separazione ed il silenzio che lo costringono a non scrivere più alla sua amata a Siracusa, la sordida truffa dello zio Rocco per appropriarsi della farmacia di Lucia, le viscide profferte amorose di Carmelo che cerca di violentare la giovane farmacista mentre entrambi lavorano nel retrobottega, l’abbandono e la cessione dell’attività di famiglia allo zio ingordo e irriconoscente: tutti questi elementi potrebbero benissimo avere un parallelo appunto in quel romanzo-modello per Elio Cardillo che sono I Promessi Sposi, la fabbrica di tutta la tradizione romanzesca italiana successiva.

Ma è la bontà a prevalere in tutte le pagine, una bontà che commuove senza diventare patetica nel senso più vieto del termine. Quasi non vi si crede, e pare davvero irrealistico lo sfoggio rutilante e bellissimo di amore ed affetto che circonda i due giovani in ogni loro gesto quando a poco a poco cercano di rialzarsi: e lo comprenderemmo da parte dei familiari di Gino, che accolgono Lucia come una figlia; ma lo stentiamo a credere durante il viaggio in treno che poco dopo il matrimonio li porta in Svizzera — Lucia incinta e ancora nel segreto per non frenare Gino ed il loro viaggio della speranza —, o all’arrivo a Varese, o poi a Lavena Ponte Tresa, il piccolo centro di fronte a Lugano dove resteranno per circa un anno o dove nascerà Dina, la figlioletta che porta il nome della mamma di Lucia, morta da tempo e prima dei fatti del romanzo. È tutto un sbracciarsi di personaggi comprimari, grandi e piccoli, meridionali e settentrionali, italiani, svizzeri, pugliesi campani siciliani emigrati settentrionali trasferitisi al Sud — tutti non fanno altro che mostrare il loro amore, la loro comprensione per le difficoltà di Gino e Lucia, che brillano per gratitudine e magneticamente attirano su di loro il bene come i santi le preghiere, le pene ed il martirio e poi la corona di gloria della ricompensa celeste.

Il fatto è che noi stentiamo a credervi non perché sia una esagerazione strappalacrime di Elio Cardillo, uomo dai forti sentimenti e dalla fede profonda e animosissima; quanto perché il cinismo che ci avvolge ogni giorno da ogni parte ci ha reso più duri e cinici, mentre in queste pagine il correttivo di bontà e semplicità arriva ad ogni riga, in quelle piccole pennellate che Cardillo — lo ricordiamo, poeta in primo luogo e per vocazione, e fotografo anche con la penna — si concede quando descrive piccoli elementi del paesaggio o dei gesti dei personaggi con un tono che risalta diversamente rispetto alla prosa consueta, e la solleva e la illumina come per evitarne degli eccessi, che il romanzo peraltro non segue mai. In due casi addirittura, il vocabolario si innalza a voci che sono tipiche di chi pensa per versi e non per prosa: “La pietra bianca accecava, e i ficus fitti nel color di mirto, sapevano serenare gli occhi: infiniti i passeri che, se pur mille, diventavano un solo cinguettio. E poi le cicale a stridulare in coro e il cicaleccio nel vespro stordiva l’aria. In farmacia il dottor Paolo apriva anche la porticina sul retro, e la corrente d’aria fresca del mare lì dietro, profumata di sale, frescava farmaci e gente”. Serenare, stridulare, frescava, sono parole di chi dipinge, di chi coglie immagini e suoni per farne poesia, e non certo di chi scrive semplicemente (senza nulla togliere, anzi, rafforzando!) un romanzo. Fosse mai semplice scriverne uno: e questi tratti ancora manzoniani ce lo indicano — e sono tratti del Manzoni più “poetico” del 1827, di quello che fa ancora parlare i personaggi anche in una loro lingua più lombarda, non certo di quel Manzoni del 1840 che ebbe ancor più successo di pubblico ma fece arrabbiare il geniale glottologo Graziadio Isaia Ascoli per quella lingua tanto diversa ed “estranea” alla Lecco del 1628.

Non mancano quindi tutti gli elementi che ricordiamo come familiari dal romanzo di Manzoni, alcuni in parallelo, altri ribaltati: l’addio ai monti notturno è un addio a Siracusa ed al rumore del mare; la vigna di Renzo devastata dai Lanzichenecchi è la farmacia distrutta due volte, con l’inganno, da Rocco e Carmelo, allagata, sventrata e poi quasi data alle fiamme nel finale del romanzo; don Ferrante e donna Prassede sono ribaltati un po’ in Carlo e Gaetana, e poi soprattutto in Nino e Luisella; don Abbondio vigliacco e pusillanime è un don Mario che altrettanto non svetta per coraggio, e se mitiga le sue paure con il grande affetto verso Lucia e poi verso Gino, ha pure lui le sue pecche di giovane prelato omosessuale — tributo ad un realismo attualizzante che Cardillo descrive con garbo e sempre avendo in mente l’azione di quella Provvidenza che rialzerà sul finale il parroco ormai morente, facendolo somigliare a un Fra Cristoforo in extremis.

Cardillo non può e non vuole sviluppare ogni traccia che gli si presenta fra le dita mentre scrive: potrebbe parlare indifferentemente di ricette tradizionali preparate a Lentini o a Siracusa, a Noto dagli avvocati Rizza o a Varese o a Laveno Ponte Tresa, così come potrebbe approfondire le lotte bracciantili quando racconta che il rinfresco del matrimonio di Gino e Lucia si tiene alla Camera Socialista, o quando parla di Saro e dell’incidente che gli spappola il ginocchio. Potrebbe strizzare l’occhio ad uno sviluppo più salace della vicenda quando racconta dei complimenti del chirurgo dottor Patti a Lucia sua collaboratrice, che “avevano il potere di farla sentire desiderata” e “la infiammavano nel suo essere seducente, e stuzzicavano la donna che la sua modestia non poteva nascondere”, e magari potrebbe accentuare maggiormente i pensieri di Gino che nella sua intelligente semplicità si rende conto che qualcosa non quadra quando Lucia dice di non volere il chirurgo al loro matrimonio. Potrebbe; ed in questi ed altri casi sparsi lungo il romanzo non vuole; tace, sorvola, fa intuire, proprio con l’arte immaginifica di un fotografo che sa bene quanto non solo non si possa con la camera imitare la cinepresa e quindi cercare di cogliere tutto molto di più che nell’inquadratura ferma della fotografia, ma ancor più quanto sia impossibile con qualsiasi telecamera perfino modernissima descrivere ogni cosa e contemporaneamente nelle sue sfaccettature. Il motivo vero è che la realtà va evocata, proprio come insegna Gorgia e come indicano i poeti: e Cardillo è e rimane poeta anche nel romanzo.

Il fatto è che non si tratta di un romanzo: la forma è quella, certo; ma la vis che anima le pagine è quella di un cuntu, la storia narrata a sera dagli anziani agli altri coetanei e soprattutto ai più piccoli. Lì non si deve né si può spiegare tutto, e si deve lasciar correre l’immaginazione, che è come il desiderio, perché non ha le regole della vita quotidiana ma altre tutte sue. Un po’ come continuare a sognare, come fanno ogni volta Gino e Lucia, di dividere un unico pasticcino al cioccolato, “un morso io, un morso tu”.

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