Da cosa si può liberare
un’immagine scattata cinquant’anni prima?
Da
tre cose: dall’oblio,
dalle altre immagini,
dalla memoria
stessa.
Elio
Cardillo ha pubblicato nel 2018 per i tipi della stampeacontatto
di Carmelo Gaudioso un libro di fotografie, che ha deciso di
intitolare Immagini Liberate, dove sono raccolte circa un centinaio
di foto in bianco e nero scattate fra il 1968 ed il 1972 (ma almeno
in un caso — “Lucia
e Tommaso”,
una foto di due giovani abbracciati sulla cattedra di una classe con
alle spalle una lavagna — si legge la data del 23 febbraio 1973).
Chi
inizia a sfogliare il libro, anche distrattamente quasi come si
compulsa un dizionario cercando suggestioni, si rende conto di una
verità semplice ma che però non trova scritta da nessuna parte:
queste pagine sono il frutto di uno scarto,
una selezione, e vanno appunto sfogliate allo stesso modo di un
frutto che viene liberato dalla buccia — che si può mangiare,
certo, ma nasconde una polpa ancor più sapida.
Viene
in mente quel sonetto di Petrarca, il 180 del Canzoniere,
Po, ben puo’ tu
portartene la scorza:
il motivo petrarchesco è facile ed evidente: il fiume Po lungo cui
lui viaggia può sì trasportare il suo corpo (la scorza),
ma non certo i pensieri ed il suo cuore, che sono rivolti a Laura. E
del resto chi legga il Canzoniere
di Petrarca sulla linea esegetica delle immagini, non vi trova un
diario spirituale fitto di rimandi e intrecci a dipinti, paesaggi,
luci ed ombre, che potrebbero in tutto somigliare all’intento
narrativo di Elio Cardillo in questo suo volume? In fondo, quando
Petrarca nel suo celebre passaggio del Secretum
risponde a Sant’Agostino e dice: “adero
michi ipse quantum potero et sparsa animae fragmenta recolligam”,
cioè “sarò
presente a me stesso per quanto potrò e raccoglierò gli sparsi
frammenti della [mia] anima”,
non sta dicendo nulla di diverso rispetto a quanto dice Cardillo con
l’ausilio delle fotografie ma con la
singolare dinamica delle sue didascalie poetiche.
Le
immagini vanno dunque liberate
dall’oblio che le relega in un altrove:
a farle tornare vive non è solamente la scelta di metterle insieme
per crearne un discorso rievocativo; serve una narrazione, e serve
che questa non si ponga come un commento, ma come un percorso che di
quelle immagini ritrovi le ragioni dopo cinquant’anni dalla loro
fissazione nella macchina da presa e nell’occhio del fotografo. Le
didascalie che l’autore ha preparato per ognuno di questi scatti
sono un percorso differente,
correlato ma per certi versi parzialmente autonomo rispetto alla
narrazione iconografica; in esse si trovano le tracce più importanti
per comprendere tutta l’operazione estetica che è alle spalle del
volume, le ragioni del recolligam
che Cardillo, dopo mezzo secolo, decide di intraprendere per liberare
le immagini.
Chi
legga le parole aggiunte a “Monovano”
trova un primo indizio importante: L'uscio
è appena socchiuso ma tanto basta per zittire progetti pieni di
mollezze e futilità. Il mio peccato è che ho scordato la mia
storia, rinnegando antiche esistenze. Quel tempo però è venuto a
trovarci da lontano e da lontano viene lo sguardo della donna:
sguardo eterno e il suo sorriso mi trafigge. Sicuramente abbiamo
fatto tardi.
Di
certo è l’io
di Cardillo autore a parlare, a dire che ha scordato la sua storia,
rinnegando
antiche esistenze;
ma è il seguito a svelare una prima molla che ha spinto quel
percorso all’indietro: quel tempo però è venuto
a trovarci da lontano e da lontano viene lo sguardo della donna:
sguardo eterno e
il suo sorriso mi trafigge. Sicuramente abbiamo fatto tardi.
A fare che cosa?,
ci chiediamo. A rimettere insieme i frammenti? A trovarvi un senso? A
mostrarlo a quella anziana donna ripresa nella fotografia, o ai suoi
familiari ed amici, o ad un pubblico più ampio ed estraneo come
quello dei lettori del libro o spettatori della mostra, di modo da
farli entrare in quella foto ed in quel tempo lontano che è venuto a
trovarci?
I
tre tempi a cui noi tutti siamo tanto abituati nella loro universale
irreversibile scansione — passato,
presente e futuro —
da quando è nata la fotografia sono stati cancellati
inevitabilmente, anche se non ne abbiamo pienamente preso coscienza,
perché siamo così tanto sommersi da immagini in questa nostra che è
potentemente deflagrata come una civiltà
bulimica dell’immagine,
da non rendercene conto. Le immagini liberate
quindi sono tali perché si svincolano dal flusso pur immergendosi in
esso con la pubblicazione, con le mostre, con l’esposizione
al pubblico che è una ostensione
di un tempo che non c’è più, letteralmente, tranne che nella
memoria o per quella circolarità che la fisica quantistica ci
dimostra col rigore della matematica e sempre più con l’evidenza
sperimentale. Ogni particella del nostro universo fisico, creata
insieme ad altre, ne rimane “intrecciata”
nel fenomeno dell’entanglement,
l’intreccio appunto, che fa sì da rendere inscindibili le loro
proprietà anche se quelle particelle fossero spedite ai due capi
opposti dell’Universo astronomico.
Quelle
foto, riprese appunto con l’azione delle particelle di luce — i
fotoni
— e impressionate sulle pellicole toccate da liquidi reagenti e
mani che le hanno stese, toccate, spostate, incollate a supporti,
stampate e ristampate, sono una realtà che risuona dentro chi le ha
scattate e chi le ha viste. Per quanto fantasmagorico e difficilmente
intuibile ciò sia, la meccanica quantistica e gli esperimenti
scientifici ci dicono che è così.
Allora
le immagini liberate
sono tali perché si svincolano dalla scansione del tempo tripartito
per immergersi nella durata.
È
un segnale importante quel che si legge nelle didascalie poetiche di
Elio Cardillo aggiunte alle sue fotografie: molte di essere sono
narrate al passato
o in un eterno presente
dell’immagine; e fin qui non vi è nulla di straordinario per un
discorso che si affianchi a delle immagini fisse, perché tale è la
natura estetica della comunicazione attraverso la fotografia — essa
fissa una realtà da cui astrae una dimensione specifica e limitata e
la sublima in un oggetto da comtemplare
(e la radice è quel cum-temno
che alla lettera significa “separo
e metto assieme”:
dunque ancora Petrarca di cui dicevo) e sul quale riflettere
(Narciso ci aiuta; e così Fedro, perché ogni fotografia ci ricorda
che de te fabula
narratur; e
Terenzio ci consola, perché homo
sum, humani nihil a me alienum esse puto:
“sono un uomo, e
nulla di ciò che è dell’uomo ritengo mi sia estraneo”).
Ma
quando nelle didascalie poetiche Cardillo narra in varie forme
linguistiche di futuro,
per delle immagini del passato di cinquant’anni fa e immergendosi e
tornando con la memoria e l’immaginazione a mezzo secolo addietro,
cosa vuol fare se non liberarle dalla memoria
stessa e renderle alla loro durata
appunto?
Noi
abbiamo nella nostra lingua più di un futuro:
quello semplice
che ci invia verso quel che sarà, quello anteriore
che già pone una scansione fra quel che sarà e quel che sarà già
stato prima di quel sarà. Ma poi abbiamo anche un futuro
epistemico,
quello delle ipotesi che non necessariamente riguardano la
tripartizione del tempo in passato, presente e futuro, ma le
condizioni di quel che può essere: alla domanda “Che
ore sono?”
noi ad occhio magari guardando il Sole rispondiamo “Saranno
le Cinque, più o meno”,
con semplicità e senza pretendere tutta la precisione disponibile.
Ma abbiamo anche un futuro
concessivo,
quello che esprime dubbi e correttivi, quello che consente di fare
una scelta o di valutare più di una dimensione della realtà: quando
di un personaggio famoso diciamo ad esempio che “Sarà
pure bravo e bello, ma quando parla...!”,
noi con quel
futuro concediamo un credito a qualcuno con la nostra fiducia, ma non
siamo poi davvero tanto sicuri che nello scorrere del tempo
manterremo la nostra opinione.
Ecco: le didascalie di Elio
Cardillo in tutte le sezioni del suo volume hanno delle fotografie
che sono corredate da una narrazione
che ne amplia la durata
proprio con questi futuri narrativi, epistemici, concessivi. Ed a
leggere fra le didascalie si trova anche un esplicito rimando
intertestuale, che costruisce una vera e propria narrazione
tradizionale fra immagini che invece non danno nessun indizio di
collegamento fra loro: nell’unico caso il rimando si ha fra la
SEZIONE “SILENZIO TRASPARENTE” nella foto dell’aratore in
“Sudata terra 1
”: Al
ritorno, rovente come la sua falce, spegnerà la sua stanchezza in un
bicchiere di vino scadente,
e la SEZIONE “VELATA UMANITÀ” nella foto “Garçonniere
con dependance”:
Si diceva del
padrone: forse anche lui un povere diavolo al ritorno con la falce
rovente che annega la sua stanchezza in un bicchiere di vino
scadente.
Perché
quindi parlare al futuro per liberare delle immagini, ma soprattutto
perché parlare al futuro per narrare degli eventi passati? Tornano
in mente due romanzi bellissimi e poco noti: in primo luogo il
romanzo del 1963 intitolato Le
Armi l’Amore,
scritto da Emilio Tadini e dedicato a raccontare al futuro anteriore,
al condizionale passato e all’imperfetto, senza mai usare il
presente indicativo, la vicenda storica e personale di Carlo Pisacane
e del suo tentativo fallito di rivoluzione popolare nel 1857; in
secondo luogo il bellissimo romanzo della scrittrice francese Annie
Erneaux intitolato Gli
anni,
pubblicato nel 2008 in Francia e nel 2015 in Italia, e tutto dedicato
alla splendida descrizione di fotografie che hanno segnato la vita
dell’autrice. E tornano in mente due bellissime poesie di Wallace
Stevens, Il pianeta
sul tavolo
e Un giorno
chiaro e nessuna memoria,
entrambe pubblicate ne Il
mondo come meditazione,
la raccolta postuma del poeta statunitense: una foto è un’opera
di luce
che mette sul tavolo da un frammento di mondo l’intera nostra
esistenza, e la libera dalla schiavitù della memoria per offrirci
una presenza.
Cardillo
avrebbe potuto
(indulgo anch’io, in conclusione, a dei tempi e modi diversi
rispetto all’indicativo presente) mostrarci le sue bellissime
fotografie e raccoglierle in un volume, anche senza null’altro
aggiungere. Ma con le sue didascalie poetiche ci mette nella
condizione della durata della visione, che è il compito più
importante per una fotografia e la sfida più difficile da
affrontare. Saremo arrivati tardi anche noi, come si chiede lui in
quella prima didascalia che citavo inizialmente? Sarà la
luce che ritorna dal passato/ per dirsi con le pieghe del tuo volto,
ricordando i versi del Sommo Poeta, a darci la risposta.