Klaus Kinski è per molti soltanto un attore denso di incoerenze, una figura fortemente contraddittoria e irta di luci ed ombre: più che ad un quadro di Caravaggio, qualcuno l'ha interpretato nella sua parabola artistica e personale come l'ultimo attore espressionista, l'ultimo attore muto del Novecento.
Quanto vi sia di genealogicamente affine tra il Barocco e l'Espressionismo è facile vedere, e non è un caso che gli studi più notevoli sul Barocco, nel secolo ormai passato, siano venuti da letterati e studiosi per molti versi
espressionisti come stile cognitivo e pratica comunicativa (Eugenio d'Ors, Mario Praz, ma anche Elémire Zolla: e l'elenco potrebbe continuare).
Queste mie riflessioni però sono precisamente estemporanee, stimolate da una coincidenza fortuita fra la catena di terremoti che stanno colpendo il territorio dell'Emilia e la lettura di un articolo-antologia su Klaus Kinski apparso sull'ultimo numero (maggio 2012) di Poesia, la storica rivista di Nicola Crocetti.
L'introduzione con un breve saggio e la traduzione di alcune poesie sono a cura di Antonio Curcetti, che si è già occupato di Kinski negli anni passati: io ne riporto una, dal
Tagebuch eines aussätzigen (una scheda con diverse recensioni di quotidiani tedeschi, si legge a
questa pagina), che ha per titolo la data del
27. märz.
... O mein Gott, wie furchtbar teilt sich die Sonne, wenn wir nach ihr
greifen, um uns daran zu wärmen — Sie teilt sich, als täte die Erde sich
auf in großen Rissen — und sie lacht nur im Kreis — ach, ach — hingeben ist noch alles —
und erschrecken nicht über den Schmerz, wenn wir ihn doch suchen —
und wir singen in seiner leichten Ohnmacht — und vielleicht ist nichts Schweres mehr.
Mein Gott, weinen für Blumen einmal, damit sie ein wenig ausruhen —
— ich brenne...
und die Sonne schleicht schon herum,
aber ich weiß es und bin gefaßt —
aber ich brenne schon — denn die Sonne ist schnell —
... O mio Dio, è orribile come il sole si laceri, quando a lui
noi guardiamo per riscaldarci — quando si lacera, la terra
sembra aprirsi in grandi fenditure — ed è radioso soltanto nel disco —
ahimè, ahimè — sacrificare di nuovo ogni cosa —
e non avere alcun timore del dolore, quando siamo noi a cercarlo —
noi cantando immersi nel suo lieve deliquio —
e forse nulla più essendo insopportabile.
Mio Dio, piangere almeno una volta per i fiori, perché essi possano avere un po' di pace —
— io scotto...
e il sole striscia attorno,
ma io lo so e sono pronto —
ma io già brucio — poiché veloce è il sole —
Non è già spezzata già la voce di questa poesia, frantumata come le
fenditure della terra che descrive? Gli incisi che si aprono via via non sono altro appunto che squarci, strappi sintattici nel corso del continuum dei versi: poiché non si richiudono, anzitutto, e sembrano invece approfondire il piano del riferimento con una sollecitata subordinazione logica, che si apre al terzo verso, "
— ach, ach — hingeben ist noch alles —", e poi ancora scende sul piano espositivo con l'anafora che segue, "
und erschrecken nicht über den Schmerz [...]
/ und wir singen in seiner leichten Ohnmacht".
A cosa si legano quei due
und, e attraverso quali concetti stringono il legame? Il campo semantico da indagare è quello del
Opfer, di una
offerta sacrificale che mostra la potenza spaventevole del sacro (il Sole di cui si parla provoca
Furcht, dunque
Schreck) e che conduce allo
sfinimento delle forze: cos'è infatti
ohne-macht, se non la più nuda descrizione della trance che conclude l'esperienza mistica e rituale, durante la quale,
privi di forza, si è invasi dal
canto e si perde il peso (
leicht, dice Kinski) del corpo terreno per quello spirituale, che è appunto leggero? Pare di sentire le parole di René Girard, l'antropologo che più ha indagato il
sacrificio e i suoi risvolti nelle strutture del pensiero: si pensi almeno al suo bellissimo saggio
La violenza e il sacro (la scheda istituzionale dell'editore Adelphi a
questa pagina).
Il
canto ("
wir singen", un canto
collettivo e rituale) porta il superamento del timore perché, traducendo altrimenti che come usa Curcetti, "
nulla è forse più gravoso ormai", e dunque
schwer risponde a
leicht: la poesia che è adombrata in questa metafora tradizionale, quella del canto, rimanda all'esperienza religiosa e misterica, alla magia, come avrebbe affermato un'altra grande antropologa, Anita Seppilli, nel suo classico studio del 1962,
Poesia e Magia (la scheda della ristampa del 2011 presso Sellerio — l'editore originale è Einaudi — si legge a
questa pagina).
Ed è ancora una forte simbologia religiosa, rituale e misterica quella che emerge dalla seconda parte della poesia di Kinski, che era nutrito di disordinate ma intense letture fin dalla giovinezza: cosa sarebbero i
fiori se non il frutto dei cicli di morte e rinascita che animano il pensiero umano fin dai primordi?
La dialettica del mitologema dei fiori è scoperta in Kinski: "
weinen für Blumen einmal, damit sie ein wenig ausruhen", dove il punto nodale è il
ruhen aus, l'
aver pace e
riposo nel senso di "quiete", dunque di Morte — il seme scompare e muore sotto terra per poi fiorire e riprodursi, come nel mito di Kore/Persefone; il Sole stesso cade e risorge nel suo moto che quiete non ha e non cessa. Dirà alla fine del componimento, "
die Sonne ist schnell", non a caso: perché il sole è una presenza continua e fluida —
schleichen è verbo del Serpente, che è simbolo solare e insieme del cerchio, l'
uroboros — ma presenza che permea tutto lentamente — non è
schleichen infatti il verbo del
langsam vergehen?
L'unità che è spezzata sintatticamente nel dettato della poesia, si ricompone nel contenuto e nelle scelte lessicali di Kinski, che sono però fitte di rimandi e di ossimori, di corrispondenze in parallelo e di chiasmi, e nelle due anafore, una con
und...und, dove i versi hanno un significato includente e fanno corpo al sacrificio col canto, l'altra alla fine con
aber...aber, dove il culmine è la
febbre mistica, il
brennen del
sacrificio di sé che si consuma sotto il Sole.
Perché il Sole, il Sacro, è spezzato e lacerato, ed anche il suo corrispondente
specchio, la Terra che è quanto di più Altro e Diverso
c'è rispetto al Sacro, si spezza e ribolle: sembrerebbe una sottile coincidenza, ma è del filosofo Andrea Tagliapietra uno degli studi più belli e densi su questa costellazione simbolica del rapporto
speculare fra Cielo e Terra, Sacro e Profano, e si intitola
La metafora dello specchio (la scheda della casa editrice a
questa pagina).
Kinski era cosciente di queste possibili letture, o era
invasato egli stesso, durante la sua febbre
pestilenziale e da
lebbroso, come recita il titolo della sua opera poetica?
Ha senso dirlo di un poeta-attore? Lo avrebbe per un poeta-scrittore, conscio perché esplicitamente portato a mostrare le sue scelte, anche addirittura con l'autocommento (da Dante a Leopardi a Montale, per restare solo agli italiani e ai maggiori). Ne ha meno per un poeta-
performer che ha fatto della sua vita stessa un atto
spezzato e
lacerato d'arte e di miseria, dove Terra e Cielo sono caduti in gorgo come nella febbre che ha sempre attanagliato Kinski.