Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

sabato 9 gennaio 2021

DI NEBBIA E LUCE

Il nuovo, in quanto inatteso, è la sensazione repentina, dinanzi all'incertezza di ogni nebbia; è la forza prorompente del ricordo nella percezione: l'inerzia in quanto tenacia, opposizione al mutamento — lo sapeva ottimamente Spinoza. En-ergon è il "lavoro interno": il lavorio, la "forza operosa" che "affatica di moto in moto"; dunque l'energia è una "disponibilità al mutamento della forma", dal livello fisico (in quanto "della Natura") minimo a quello supremo, che si riconnettono come le volute di una spirale che unisce la ragione e gli strumenti attraverso i quali se ne prende misura — un logaritmo, propriamente parlando di spirali.

L'Essere è forse la vera impressione della memoria che è in verità "ogni" essere — esse est memini, dicevano i saggi.

Se dunque ogni panorama è un immergersi nella Luce della conoscenza, semplice e aperta percezione che prende assieme i sensi per farne senso, la nebbia ci accoglie nell'alveo dell'inconsapevolezza, non nell'impossibilità della visione. Nella nebbia si vede, ma senza vedere la visione che produce la conoscenza attraverso la percezione. Essa nebbia perciò ci libera, nel limite, dalla presunzione di sapere. 

L'Essere è: la nebbia ci aiuta a ricordarlo. Ogni oscurità è, con la sua propria Luce; altrettanto ogni luce, ogni nebbia, ogni profilo inteso delle cose, saputo con ogni occhio fisiologico, concreto ed astratto, è. 

Quel che chiamiamo "ignoranza" non è quindi ignoranza della cosa (col genitivo oggettivo), ma impotenza in noi e per noi del limite e della nebbia che è sempre sostegno anche quando non lo accettiamo e cerchiamo una visione limpida, senza "filtri", appunto come per giungere ad una verità "oggettiva". Essa però giace sotto l'inevitabile nebbia della costruzione del senso, che è una disponibilità al cambiamento di forma del campo di forze dell'Essere, diffusa in modo diseguale — anisotropo, "in una parte più e meno altrove".

Nel ricordo mutevole e diveniente L'Essere si mostra col suo inevitabile filtro, anzi lo mostra; e anche il filtro è eterno e vero nella misura parziale in cui lo concepiamo, non nel suo intero per sé.

Nella nebbia il vero è dunque più vero, e il suo certo tratto che noi cogliamo è tale, non essendo l'essere dell'Essere, ma la porzione eterna e vera del tutto luminoso ed oscuro insieme, che è la Luce che non potremo mai cogliere ma si mostra nella nube della nonconoscenza. Lì il nostro occhio lattiginoso brilla ultimamente nel fuoco senza limite.



mercoledì 6 gennaio 2021

Apparire e Nutrire, Manifestarsi e Squarciare, Brillare e Parlare

Cos'è l'apparire? In cosa è diverso dal manifestarsi, e in cosa dal brillare?

Apparire, dal verbo latino pāreō, significa "essere visibile", e quando però è coniugato con il riferimento "a qualcuno o qualcosa", significa "sottomettersi", "essere obbediente": e ciò non è solo il segno dell'«umiltà» (dunque di un legame profondo con la terra, humus, che anche etimologicamente è legata all'homō, e non solo per il mito della creazione), ma anche della capacità di "ascoltare", perché quell'obēdiō richiama proprio audiō, ed è a causa di quell'ascolto che si "obbedisce".
A cosa dunque si tende l'orecchio? O la bocca?
Quel pāreō deriva da una radice protoindoeuropea *peh₂-, col significato originario di "proteggere", e poi con quello derivato di "condurre al modo del pastore". Da quella radice è derivato il latino pāscō, cioè "conduco a mangiare degli animali", così come il nome del dio greco Pā́n, il dio che "nutre" in quanto è dio del "tutto"; ed è derivato anche pānis, il "pane", ma così pure penes e penus, cioè per il primo termine il "cibo" e insieme l'«essere sotto il comando di qualcuno", e per il secondo "la parte più interna del tempio di Vesta", che è, circolarmente, il greco hestíā, vale a dire la "terra", dunque humus). 
Ma dalla radice *peh₂- è derivato anche, con il grado vocalico ridotto, *ph₂–tḗr, "Colui che protegge e nutre poiché è visibile", il pa–dre. E in questo circolo dei suffissi d'agente come -tḗr si unisce anche l'altro suffisso d'agente, -mḗn, che si è unito alla radice al grado vocalico forte per derivare *poh₂–i–mḗn, il greco poimḗn, che è anche il "maestro" oltre ad essere il "pastore", vale a dire il mēlá–tēs, cioè "Quello delle pecore" (dove il greco mêlon è però ben prima del "bestiame" invece "ogni tipo di frutto" — dunque ancora, come in un avvitamento, la totalità del "nutrimento"). Da quel grado forte *poh₂ del resto è derivato il germanico *fōdô, da cui discendono to feed, "nutrire", e food, il "cibo".
Apparire dunque, nel senso di essere visibili, è un proteggere: e la migliore forma di protezione è quella del nutrire. Dare in cibo sé stessi, se fosse possibile: la Natura lo fa nel suo eterno trasformarsi per cui ogni ente è cibo per altri enti; e non si dovrebbe dimenticare che lo stesso termine viene dal latino cibus ed imparentato con il greco kībōtós, che ancor prima di essere l'«offerta» è una "scatola di legno" — come a dire una "culla" ricavata da una "mangiatoia", non a caso.

Altro orizzonte si apre col manifestarsi, che ha una vicenda etimologica ben più breve ma non meno interessante, essendo ciò che è manifesto qualcosa che "può essere colpito con la mano". Non toccato, sia chiaro: nell'aggettivo latino mani–fēstus la manus, da cui la "mano" dell'italiano, è la "cosa che indica, segnala", e proviene dalla radice indoeuropea *men- che riguarda ogni "pensiero" e "attività spirituale" (quindi la "percezione" della realtà è svolta "teoreticamente", attraverso lo "sguardo" e l'«ascolto», e in ogni caso senza il contatto fisico); mentre il fēstus finale viene da un verbo che non è attestato autonomamente in latino, *fendō, che significa però originariamente "colpire", "spingere".
Questo verbo ha un'origine protoindoeuropea nella radice *gʷʰen-, che significava "battere", "colpire", e "uccidere"; e dalla stessa radice nel grado vocalico forte *gʷʰon-éh₂ è derivato la parola del germanico *banō, che significa sì il "campo di battaglia", ma anche uno "spazio aperto", un "percorso ripulito" (come nel tedesco moderno Bahn che è la "strada"), quindi infine una innocua "radura". 
Si potrebbe dire quindi uno squarcio nel fitto originario del bosco, nel quale (come nelle etimologie di Isidoro di Siviglia seguite, molti secoli dopo, da Martin Heidegger) si apre il lūcus, l'apertura di luce che è sacra perché "brilla", derivando dalla radice protoindoeuropea *lewk- che ha dato fra gli altri il greco leukós, il "candore abbagliante" e lúkhnos, la "lampada", ed appunto il latino lūmen e lūx.
Ma quello squarcio di luce che si apre nell'oscurità e brilla splendendo, dalla stessa radice *gʷʰen- di *fendōfēstus, attraverso *gʷʰon-yeh₂ ha dato anche il germanico *banjō, che è una "ferita": la luce fuoriesce dal lūcus, che è il "bosco sacro", e ne esce come un sangue brillante di sacrificio. La violenza necessaria dona luce e vita attraverso la morte. 

Nella apertura degli occhi e della bocca infine si può trovare la comunanza tra l'apparire e il nutrire, il manifestarsi e lo squarciare, dunque tra il "brillare" luminoso e il "parlare sacro".
La "manifestazione" di qualcosa infatti, il suo "apparire", è una epifania: essa deriva dal greco epipháneia, composto da epí e phaínō, letteralmente un "brillare dall'alto, un "brillare superiore" che discende proprio per rendersi visibile. 
Quel phaínō viene dalla radice protoindoeuropea *bʰeh₂-, che vale anzitutto "brillare", "emettere luce", ed ha dato fra gli altri il greco pháos che si è evoluto in phôs, la "luce brillante", ma anche in phṓs, il "mortale", l'«uomo» in quanto sta "sotto la luce (del Sole)", e poi ha portato al *-phḗs di saphḗs, vale a dire "ciò che è chiaro perché visto con gli occhi e compreso con la mente", e quindi alla sophíā, la luminosa "conoscenza" che è "maestria" e "ammaestramento" insieme.
Da quel *bʰeh₂- è venuto però anche il latino faveō, che è il "favorire", ma pure l'«incoraggiare» e l'«indulgere»: e proprio quest'ultimo significato non ha nulla di passivo, quanto invece una vera e propria pazienza e sopportazione, poiché nel latino in–dulgeō (come per *fendō) il verbo *dulgeō non è attestato autonomamente, ma deriva dalla radice protoindoeuropea *delgʰ- che ha (come nel greco endelekhḗs, "ciò che è continuo") il significato di "persistente, paziente". Ecco dunque come si favorisce qualcosa, essendo indulgenti in essa e con essa: essendo dei fautori e promuovendo dei gesti fausti, termini entrambi derivati dal faveō latino. Che poi un sinonimo di faustus fosse albus, il "bianco" e "chiaro" di ciò che è "favorevole", non fa che confermare la circolarità dei significati.
Potremmo contentarci di affidare quindi agli occhi questo "bagliore persistente" e "paziente" che sgorga come una "ferita" dell'oscurità che "ferisce" fino a farne uscire la "luce" vera che "nutre" nella misura in cui si rende "visibile" e "appare" come un "padre" che "guida" come un "pastore" e "protegge".
Ma da quella radice *bʰeh₂- deriva anche il preziosissimo termine latino iubar, lo "splendore radioso degli astri", la "grazia": si potrebbe dire, quello dell'apparizione di una cometa nel cielo notturno. 
La parola iubar ha due probabili ascendenze etimologiche: una la descrive come composto della radice protoindoeuropea *dyew-, che è il "chiarore del cielo" ed ha una storia formidabile che porta fino al latino Iuppiter, e appunto *bʰeh₂-, di modo che si possa indicare come un superlativo assoluto e insuperabile, il "chiarore del chiarore", la "luce che viene dalla luce". L'altra etimologia riporta iubar alla radice protoindoeuropea *Hyewdʰ-, che in latino ha dato il verbo iubeō, vale a dire il "comandare", l'«ordinare», l'«autorizzare», e in greco ha dato euthús ed eîthar, col significato di qualcosa di "diretto", "franco", "immediato" e che arriva "tutto in una volta".
Come la luce che "immediatamente" rende "visibile" la realtà, "tutta in una volta" e "una volta per tutte", e "persiste pazientemente", in modo "indulgente" e "propizio" verso chi sta osservando.
Eppure la stessa radice *bʰeh₂- collega gli occhi alla bocca, perché non indica solo il "brillare" ma anche il "parlare": da essa derivano infatti il greco phōnḗ, la "voce", ogni "suono" e "discorso" e "linguaggio", ma anche phḗmē, l'«oracolo» in quanto parola sacra e la "reputazione", e la phásis, che è l'«apparenza»; e derivano pure il latino fāma, che è rimasto tal quale in italiano, e il fātus, in quanto parola sacra pronunciata dai sacerdoti "in nome" della divinità, e la fābula, il "discorso", la "narrazione" che è propria di ogni parlare.

Quale Parola quindi può parlare brillando, e attraverso il suo manifestarsi squarciare le oscurità strappandole con forza come si apre una radura nel fitto di un bosco sacro per farvi penetrare internamente, come in un tempio, la luce splendente e che non muore, ma anzi nutre e favorisce dando sé stessa come cibo, protetto in uno scrigno di legno dal quale fuoriesce come una ferita di sacrificio che la fama proclamerà nel suo discorso?
Una Parola che può compiere la sua epifania brillando come una inestinguibile cometa che brilla sempre e una volta per tutte ricapitolando in sé stessa la Luce Primigenia con la quale il Pastore Divino del Cielo rese visibile l'eternità della realtà nella sua Gloria, come un Padre che prepara in sé e da sé il Pane Celeste e lo dona per prendersi cura del suo gregge e proteggerlo, apparendo.


martedì 5 gennaio 2021

PROPERZIO E LA "FORMA" DEL FUTURO - Piccola nota in margine a Elegiarum, 3, II, 18

In una sua elegia (la seconda del Libro Terzo) il poeta latino Properzio scrive, avviandosi a completare il discorso, "carmina erunt formae tot monumenta tuae", "i canti saranno tante durevoli testimonianze della tua bellezza".
Gioca, come sempre accade con il discorso dei grandi poeti, sull'ambiguità di quella "forma", che è la Bellezza, ma rimanda a un ben altro livello di ordine e grazia.
Properzio ricorda Orazio: quei "monumenta" poetici sono "aere perenniora"; lì si parla di "piramidi" e qui altrettanto, come segni di un'eternità da raggiungere e superare addirittura.
Può farlo la Bellezza? Non di certo quella esteriore e "fisica", nel senso della "physis", della Natura per come si mostra: delle 30 occorrenze di "forma" nelle "Elegie", Properzio per 12 volte la declina come "aspetto", "apparenza esteriore", e sempre così nei pentametri che chiudono i suoi distici.
Allora è la Bellezza del "kosmos", invisibile e inattingibile appieno, se non con l'occhio intellettuale che è guidato dalla poesia, dal "carmen".

Ma c'è qualcosa che rende quel pentametro tanto fascinoso e splendente: non solo la costruzione ritmica, quel martellare allitterante delle T, questa tipica danza ondeggiante; quanto proprio il legare alla fragilità dell'amore la durevolezza, l'eternità che dischiude la visione del Supremo.
Dove in Orazio tutto è già compiuto ("Exegi monumentum aere perennius": in un tempo ormai fissato, perfetto che stentiamo al di là di ogni precisione grammaticale rendendolo con "Ho eretto", "Ho innalzato"), Properzio pone il limite al futuro ("erunt", "saranno").

È l'amore a spostare sempre più in là il risultato, la sua completezza incolmabile? Di certo sì, ed è la sua luce incancellabile a renderlo eterno. Anche quando, nella parte centrale dell'opera, il poeta tradito ed offeso con ira dissimulata e studiata scrive "scribam igitur, quod non umquam tua deleat aetas,/ 'Cynthia, forma potens; Cynthia, verba levis.'/ crede mihi, quamvis contemnas murmura famae,/ hic tibi pallori, Cynthia, versus erit", cioè "Scriverò dunque qualcosa che mai la tua vita potrà cancellare: 'possente, Cinzia, per la sua bellezza; sin troppo fragile, Cinzia, per le sue promesse'. Credi a me, per quanto non ti interessi affatto il mormorio della fama, questo verso, Cinzia, ti farà impallidire".

Cos'è dunque questo "futuro", questo "qualcosa che diviene" in quell'«erunt carmina», in quell'«versus erit»?
È la comprensione del Mondo, la Verità ben più alta: oltre essa, allegoricamente, è il Mistero insondabile, che Properzio col gioco ellenistico ironico e scanzonato indaga fra rabbia e disillusione — "eventum formae disce timere tuae", "impara a temere il destino della tua forma", potremmo finalmente tradurre.

Qual è, se vi è, la cura per questa insondabilità? Se da un lato "pollà pseudontai aoidòi", "i poeti mentono molto", dall'altro Gorgia indica nell'«inganno» e nella "consapevolezza dell'inganno" l'unico strumento per resistere alla tragedia, dentro e fuori dal teatro della vita: "Fiorì la tragedia e fu celebrata perché fu una mirabile recitazione e spettacolo per gli uomini di quel tempo e perché con i suoi miti e con le sue esperienze determinò, come dice Gorgia, un inganno nel quale chi riesce, meglio si conforma alla realtà in confronto di chi non vi riesce, e chi si lascia ingannare è piu saggio di chi non si è lasciato ingannare. Infatti chi è riuscito a ingannare piu giustamente si conforma alla realtà, perché, dopo aver promesso questo risultato, lo ha portato a compimento; chi si è lasciato ingannare è piu saggio: infatti si lascia vincere dal piacere delle parole l'essere che non è privo di sensibilità".