Da qualche giorno è stata ripresentata come nuova (in verità è del 2015) una — legittima, ci mancherebbe — dichiarazione pubblica (ad esempio si può leggere questa pagina) del neopresidente della Sicilia, Nello Musumeci, che aveva per tema, fra gli altri, l'identità cristiana della Regione che egli governerà.
Vi si dice che per rifondare il senso dell'appartenenza, delle radici e della tradizione in un'epoca di smarrimento, dovrebbero essere allestiti in tutte le scuole primarie del territorio dei presepi natalizi (aggiunta mia, rispetto al semplice e schietto "presepe" della dichiarazione originale, perché qualcuno potrebbe pensare che vi sia qualche intento di rimettere in scena il De Filippo di "Natale in casa Cupiello", dato che lì nell'opera teatrale il presepe restava tutto l'anno, coperto da un piccolo sipario e poi riaperto alla visione).
Nella dichiarazione si legge una aggiunta condivisibile: "Nessun alunno deve sentirsi obbligato a concorrere, specie se professante culti diversi da quello cristiano; ma avere rispetto per le religioni degli altri, non significa doversi vergognare della propria".
Eppure, dopo decine di sentenze grandi e piccole sulla liceità di esprorre simboli religiosi nei luoghi pubblici, sentenze — aggiungo — contrastanti fra loro e quindi non totalmente dirimenti la questione, la laicità dello Stato in tutti i suoi organi e a tutti i livelli è ancora qualcosa da desiderare e non un dato acclarato, almeno come coerenza rispetto al dettato costituzionale: infatti due fra queste sentenze hanno coinvolto i massimi gradi di giudizio, senza venire a capo della decisione da attuare.
Da una parte la Corte di Cassazione nel 2000 ha ritenuto l'esposizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici incompatibile con la libera scelta di laicità e pluralismo attivo del nostro ordinamento; dall'altra parte il Consiglio di Stato, che invece nel 2006 ha reputato coerente col dettato della Carta costituzionale la facoltà di esprorre i medesimi simboli religiosi.
È poi intervenuto anche più di un grado di giudizio a livello europeo, fin quando la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha riconosciuto, con sentenza del 2011, il diritto all'Italia di poter esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici.
Ma se è sciolto un dubbio giuridico, il dubbio sostanziale e politico rimane.
Immagino bene quindi che la questione — da Machiavelli a Giucciardini fino a noi — non sarà risolta in un'aula di tribunale, degnissima ed ineccepibile, ma incapace di risolvere un problema che non ha la sua radice nel diritto, quanto nella cultura che di quel diritto è alla base.
Eppure, se la questione è quindi eminentemente "politica", mi chiedo come ancora si possa invocare da noi la religione a farsi strumento identitario "contro" altre religioni che — si afferma — sarebbero portatrici di uno snaturamento culturale. Non si stanno forse mescolando — impropriamente: ma lo dico da ingenuo, ripeto — le carte in tavola? Se la religione "altrui" è il problema, come può la religione "nostra" essere la soluzione, dato che entrambe hanno inficiato — a detta di chi afferma ciò — le rispettive culture?
Perché se l'unica cultura inficiata dalla religione è la cultura "degli altri", allora la questione è presto risolta: noi abbiamo ragione, e loro — "evidentemente", "come sempre" — sbagliano. L'importante è trovarsi sempre dalla parte del "noi" e restarvi, se no sono guai seri.
Se invece diciamo che "noi" siamo "tolleranti e democratici" perché abbiamo una tradizione e un fondamento religioso nella nostra cultura, in quale punto chi dice ciò ha smesso di considerare la nostra storia, i nostri atti colonizzatori, le nostre guerre (che sarebbero, per sua stessa ammissione, guerre motivate quindi anche dalla religione stessa)?
Delle due l'una: perché se siamo diventati tolleranti e democratici grazie alla nostra cultura fondata anche sulla religione, allora le nostre guerre sono state solo una "legittima difesa" verso conflitti iniziati da altri contro di noi.
Ma se non è stato così, allora — e se quindi ammettiamo che in quella ricostruzione ad hoc dei fatti che è stata la dottrina della "guerra giusta e santa" noi siamo stati parte attiva e non meramente passiva dei conflitti che hanno costellato la storia mondiale — quella religione ha fatto male anche alla nostra cultura, e noi siamo diventati tolleranti e democratici allorquando abbiamo iniziato a destinare la religione al solo "foro interno" della coscienza, e non più ponendola alla base degli ordinamenti statali che altrimenti abbiamo considerato "confessionali" in tutte le loro declinazioni — dal tardo Impero Romano, a quello Bizantino, a quelli europei a tutte le longitudini da ovest fino all'oriente russo.
Tranne che il neopresidente Musumeci non si riferisse alla specificità siciliana in quanto e per quanto noi siciliani non abbiamo mai iniziato delle guerre motivate dalla religione (non se ne danno esempi nemmeno nella storia del variegato Regno di Napoli/Regno delle Due Sicilie).
Ma ancora una volta: l'allora deputato dell'opposizione nell'Assemblea Regionale Siciliana parlava nel 2015 a titolo personale, o come rappresentante dello Stato in un suo organo elettivo quale è il consesso regionale? Ed in questi giorni, in cui sta nuovamente girando la sua dichiarazione di due anni fa, egli conferma o quanto meno non smentisce quella dichiarazione in quanto cittadino, o in quanto Presidente della Regione?
Soprattutto: se non si tratta di una questione amministrativa riguardo l'esposizione di simboli religiosi in luoghi pubblici, o di più ampia natura giuridica, ma di un fatto politico e storico, quanto dovremo ancora aspettare per decidere che "Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani"?
Lo ribadisco, da cristiano convinto e volutamente ingenuo rispetto alle questioni storiche, politiche, giuridiche e amministrative: quanto ancora dovremo aspettare per affermare che una cosa è la laicità dello Stato, una cosa è invece è la libertà di coscienza? E per quanto tempo ancora la religione dovrà purtroppo essere tirata per la giacchetta e usata per fini "umani, troppo umani"?
Del resto, se la questione fosse invece sulla corretta interpretazione del presepe come genuina espressione confessionale cristiana o come più generico fatto culturale della tradizione italiana, non vedo perché lo snaturamento storico e teologico del presepe in quanto "sacra rappresentazione", ridotto a espressione tradizionale non liturgica, dovrebbe essere preferibile. Chi lo interpreta infatti così, ne smonta la spinta propulsiva cristiana, originaria, e ne svaluta la tradizione che inserisce il presepe stesso in tutte le rappresentazioni delle "messe per gli illetterati" che non riguardavano soltanto il Natale, ma anche la Pasqua e gli altri momenti forti dell'anno religioso.
Quindi, a meno di non costruire presepi pur legittimi ma "alternativi", quelli che si invocano dovrebbero essere cristiani, se non specificamente cattolici, e dovrebbero mettere in scena un Bambino specifico in una precisa rammemorazione di un evento della Storia sacra.
Ma se ciò è così, allora il presepe sarebbe da intendere come un fatto squisitamente religioso (per quanto non al livello di sacertà dei sacramenti e dei riti che li amministrano), e dunque, ancora una volta: perché svolgerli in luoghi pubblici che, per libera scelta dello Stato italiano, dovrebbero restare laici?
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