Kuki Shūzō nel suo La struttura dell'iki (la scheda editoriale, e uno splendido scorcio in quest'articolo di Elemire Zolla del 1992 sul Corriere della Sera, a questa pagina) afferma e a suo modo dimostra che la "grazia" assieme alla "forza" assieme al "disinteresse" sono i nodi su cui si incardina la seduzione femminile. "Grazia" di una bellezza conscia e dunque mostrata appena, non sbandierata; "forza" dell'autonomia di chi si sa osservato ma non per questo muta i propri comportamenti, ma anzi mantiene la distanza dallo spasimante (e che non spasimi troppo, se no la sua volgare foia troncherebbe il rapporto di sguardi e ammiccamenti!); "disinteresse" per l'amore sensuale anzitutto, per l'amore anche spirituale altresí, perché la seduzione non ha scopo ed è per questo che raggiunge un fine (dal Dao De Jing fino ad oggi è così per tutte le filosofie sino-giapponesi, per ogni aspetto dell'esistenza).
E Madame de Sorquainville ritratta nel 1749 da Jean-Baptiste Perroneau?
Shūzō dichiara più volte nei tre capitoli del suo saggio filosofico che non vi sono equivalenti linguistici (né tanto meno concettuali) nelle lingue occidentali per rendere il termine "iki" — per il fatto che non si tratta di volgere una parola, ma un'esperienza, e questa è fatta (fenomenologicamente: Shuzo è stato studioso di Husserl e amico negli anni '30 del Novecento di Martin Heidegger, quando questi era di Husserl collaboratore) anche dal contesto irripetibile in cui gli eventi accadono. Zolla invece è più possibilista circa la 'traducibilità', per quanto sia rispettoso nella sua recensione delle idee di Shūzō: ma il filosofo giapponese aveva in mente qualcosa di simile all'ipotesi di Sapir-Whorf, mentre Zolla viene dopo gli Universali di Chomsky.
Il ritratto in ogni caso parla a noi, dice Qualcosa, già solo per il fatto che definitivamente la regola medievale che impone il frontale pieno soltanto alla Divinità è ormai consciamente superata (la "grazia" dell'iki) ma non viene smaccatamente rotta — la storia del ritratto occidentale dal Rinascimento verso di noi ne è una evoluzione, per Perroneau come per i grandissimi.
Eppure lo sguardo un po' declinante (guarda il pittore Madame de Sorquainville, o forse il cavalletto? Viene in mente Michel Foucault che analizza "Las meniñas" di Velasquez, visto che in ogni ritratto gli osservati sono gli Osservatori), la piega delle labbra con il rossetto chiaro, la luce in fondo grigia che filtra dalle finestre alla sinistra del quadro (ci saranno delle tende? Sarà un pomeriggio della Francia del Nord, umbratile?), gli zigomi tesi com'è teso il mento, la linea curva della schiena cui corrisponde leggermente il gioco dei piani delle gambe, del busto, delle spalle leggermente ruotate e della testa, tutto parla di "iki" — persino il tenersi delle mani della dama.
Sarà la linea "serpentinata" (trattenuta ormai dal Classicismo: ne aveva parlato Mario Praz per il tardo Barocco ed i suoi sviluppi fino al Neoclassicismo appunto), o una Kuṇḍalinī che proprio in quella linea che va dal bacino della dama fino all'acconciatura dei capelli, biforcuta, si risveglia, ma un "iki" e il suo fascino si snodano pure in questo dipinto, in quel che non dice soprattutto.
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