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martedì 5 gennaio 2021

PROPERZIO E LA "FORMA" DEL FUTURO - Piccola nota in margine a Elegiarum, 3, II, 18

In una sua elegia (la seconda del Libro Terzo) il poeta latino Properzio scrive, avviandosi a completare il discorso, "carmina erunt formae tot monumenta tuae", "i canti saranno tante durevoli testimonianze della tua bellezza".
Gioca, come sempre accade con il discorso dei grandi poeti, sull'ambiguità di quella "forma", che è la Bellezza, ma rimanda a un ben altro livello di ordine e grazia.
Properzio ricorda Orazio: quei "monumenta" poetici sono "aere perenniora"; lì si parla di "piramidi" e qui altrettanto, come segni di un'eternità da raggiungere e superare addirittura.
Può farlo la Bellezza? Non di certo quella esteriore e "fisica", nel senso della "physis", della Natura per come si mostra: delle 30 occorrenze di "forma" nelle "Elegie", Properzio per 12 volte la declina come "aspetto", "apparenza esteriore", e sempre così nei pentametri che chiudono i suoi distici.
Allora è la Bellezza del "kosmos", invisibile e inattingibile appieno, se non con l'occhio intellettuale che è guidato dalla poesia, dal "carmen".

Ma c'è qualcosa che rende quel pentametro tanto fascinoso e splendente: non solo la costruzione ritmica, quel martellare allitterante delle T, questa tipica danza ondeggiante; quanto proprio il legare alla fragilità dell'amore la durevolezza, l'eternità che dischiude la visione del Supremo.
Dove in Orazio tutto è già compiuto ("Exegi monumentum aere perennius": in un tempo ormai fissato, perfetto che stentiamo al di là di ogni precisione grammaticale rendendolo con "Ho eretto", "Ho innalzato"), Properzio pone il limite al futuro ("erunt", "saranno").

È l'amore a spostare sempre più in là il risultato, la sua completezza incolmabile? Di certo sì, ed è la sua luce incancellabile a renderlo eterno. Anche quando, nella parte centrale dell'opera, il poeta tradito ed offeso con ira dissimulata e studiata scrive "scribam igitur, quod non umquam tua deleat aetas,/ 'Cynthia, forma potens; Cynthia, verba levis.'/ crede mihi, quamvis contemnas murmura famae,/ hic tibi pallori, Cynthia, versus erit", cioè "Scriverò dunque qualcosa che mai la tua vita potrà cancellare: 'possente, Cinzia, per la sua bellezza; sin troppo fragile, Cinzia, per le sue promesse'. Credi a me, per quanto non ti interessi affatto il mormorio della fama, questo verso, Cinzia, ti farà impallidire".

Cos'è dunque questo "futuro", questo "qualcosa che diviene" in quell'«erunt carmina», in quell'«versus erit»?
È la comprensione del Mondo, la Verità ben più alta: oltre essa, allegoricamente, è il Mistero insondabile, che Properzio col gioco ellenistico ironico e scanzonato indaga fra rabbia e disillusione — "eventum formae disce timere tuae", "impara a temere il destino della tua forma", potremmo finalmente tradurre.

Qual è, se vi è, la cura per questa insondabilità? Se da un lato "pollà pseudontai aoidòi", "i poeti mentono molto", dall'altro Gorgia indica nell'«inganno» e nella "consapevolezza dell'inganno" l'unico strumento per resistere alla tragedia, dentro e fuori dal teatro della vita: "Fiorì la tragedia e fu celebrata perché fu una mirabile recitazione e spettacolo per gli uomini di quel tempo e perché con i suoi miti e con le sue esperienze determinò, come dice Gorgia, un inganno nel quale chi riesce, meglio si conforma alla realtà in confronto di chi non vi riesce, e chi si lascia ingannare è piu saggio di chi non si è lasciato ingannare. Infatti chi è riuscito a ingannare piu giustamente si conforma alla realtà, perché, dopo aver promesso questo risultato, lo ha portato a compimento; chi si è lasciato ingannare è piu saggio: infatti si lascia vincere dal piacere delle parole l'essere che non è privo di sensibilità".

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