Si può scrivere un romanzo manzoniano nel duemiladiciannove?
Si può scrivere ed avere ben presente
che i romanzi più moderni fra scaffali e librerie di catene
commerciali sono scritti tutti quanti (o quasi tutti: il che
conferma) con al centro un commissario che risolve dei delitti e
magari è un po’ ribelle alle regole assegnate, è un po’ burbero
ma sempre affascinante, e ci piace in fondo proprio per quest'aria
che ricorda che noi non saremo mai così imperfette ma
simpatiche canaglie, e vivremo sempre ai margini cullandoci di sogni?
Si può fare appello al nostro
ricordare gli anni fervidi del breve dopoguerra, quei Cinquanta che
poi furono preludio al più grande Boom del secolo e che
videro la fame e le speranze mescolarsi per far nascere un'Italia che
sapesse d'onestà (vi ricorre nei momenti più toccanti fra le
pagine l'autore, che non teme di confondersi con chi la grida oggi
come fosse una preghiera e non un vanto), di lavoro, di ideali
di bontà?
A qualcuno non sarà sfuggito l’omaggio
in prosa ritmica per il nuovo romanzo di Elio Cardillo, intitolato
Pasticcino al cioccolato, che esce per le edizioni
stampeacontatto di Carmelo Gaudioso. La ragione è semplice e
scoperta: questo è un romanzo scritto da un poeta, e noi ci troviamo
con Elio e con l’orizzonte di paesaggio di queste pagine a Lentini,
la terra di Gorgia, il luogo dove è nata la prosa d’arte —
quella antike Kunstprosa che ha fatto sorgere con Eduard
Norden più di un secolo fa l’interesse per gli artifici retorici
non solo in poesia ma anche nei discorsi apparentemente meno
“regolati” eppure preziosissimi per le loro architetture formali,
come il sofista di Leontinoi e giù giù fino a noi molti altri
scrittori hanno saputo mostrare.
Cosa ci dicono, nel duemiladiciannove,
la dottoressa Lucia Midolo, farmacista di Siracusa, ed il futuro
avvocato Gino Fazio nato e cresciuto a Lentini, figlio di braccianti,
se non che dovremmo guardarli un po’ come Renzo Tramaglino e Lucia
Mondella? In quei due famosissimi promessi sposi essi si
rispecchiano per molte vicissitudini di quei primi anni Cinquanta
della Sicilia orientale siracusana, fra il capoluogo di provincia e
quella cittadina alacremente impegnata con la produzione ed il
commercio delle arance, volta chissà, forse solo sentimentalmente a
Siracusa ma già proiettata nell’orbita di Catania come polo
economico e culturale di riferimento. Essi parlano di noi:
parlano di fughe di cervelli per cercare lavoro — allora in
Svizzera per diventare frontalieri; oggi più verso la Gran
Bretagna o gli Stati Uniti, per far valere il merito dei propri studi
e delle proprie fatiche; parlano di amori contrastati dal destino e
però fiduciosi verso un aiuto provvidenziale, che con pazienza e
fatica e saggezza antica e popolare risolverà ogni garbuglio.
Sì, perché questo romanzo è
manifestamente manzoniano, e senza alcun timore di apparire
antiquato, proprio nei suoi elementi costitutivi: vi domina un
senso di profonda commozione verso la vita in ogni suo aspetto, che
si parli dei calli sulle mani di Saro Fazio, il padre di Gino, della
umilissima casetta abitata e governata da ‘Nzina, la madre del
protagonista, o che si parli dell’amore per la caccia di Paolo
Midolo, il farmacista padre della protagonista vera e imprescindibile
del romanzo, Lucia — nome e segnatura manzoniani sans
dire.
Domina, ancor più, una Provvidenza che
altrettanto in modo semplice e lampante si disegna come la provvida
sventura dello scrittore lombardo, e qui senza le grandi
complicazioni teologiche di cui si compiaceva Manzoni per mettere
ancor più in risalto l’abbandono fideistico e umilissimo di Lucia
(e poi di Renzo) nelle mani del Creatore.
Come un misterioso volere porta Gino e
Lucia a incontrarsi fra gli scompartimenti del treno per Catania dove
entrambi studiano all’Università (e con sapienza di narratore Elio
Cardillo inverte i termini della diegesi e ce li mostra nella prima
pagina già in medias res, un po’ spaventati ma
eccitatissimi alla Villa Bellini e poi al Bar Savia lì di fronte, a
dividere quello che sarà il vero leitmotiv del romanzo, il
“pasticcino al cioccolato” del titolo che torna a intervalli
regolari come le “stelle” alla fine di ognuna delle tre cantiche
dantesche), allo stesso modo misteriosamente, come la Provvidenza
manzoniana, quel volere soprannaturale fa morire troppo presto Paolo
Midolo poco tempo dopo una battuta di caccia, colpito da un
incolpevole amico di lunga data.
Altrettanto misteriosamente il destino
si accanisce su Gino quando il padre Saro viene reso inabile da un
colposo — ma determinante — incidente sul lavoro durante una
protesta sindacale; e così sarà un crescendo soffocante verso un
baratro che coglie i due ragazzi non più separati ma apparentemente
inermi ogni volta che le scongiure si abbattono su di loro.
L’interruzione degli studi per Gino, la separazione ed il silenzio
che lo costringono a non scrivere più alla sua amata a Siracusa, la
sordida truffa dello zio Rocco per appropriarsi della farmacia di
Lucia, le viscide profferte amorose di Carmelo che cerca di
violentare la giovane farmacista mentre entrambi lavorano nel
retrobottega, l’abbandono e la cessione dell’attività di
famiglia allo zio ingordo e irriconoscente: tutti questi elementi
potrebbero benissimo avere un parallelo appunto in quel
romanzo-modello per Elio Cardillo che sono I Promessi Sposi,
la fabbrica di tutta la tradizione romanzesca italiana successiva.
Ma è la bontà a prevalere in tutte le
pagine, una bontà che commuove senza diventare patetica
nel senso più vieto del termine. Quasi non vi si crede, e pare
davvero irrealistico lo sfoggio rutilante e bellissimo di amore ed
affetto che circonda i due giovani in ogni loro gesto quando a poco a
poco cercano di rialzarsi: e lo comprenderemmo da parte dei familiari
di Gino, che accolgono Lucia come una figlia; ma lo stentiamo a
credere durante il viaggio in treno che poco dopo il matrimonio li
porta in Svizzera — Lucia incinta e ancora nel segreto per non
frenare Gino ed il loro viaggio della speranza —, o
all’arrivo a Varese, o poi a Lavena Ponte Tresa, il piccolo centro
di fronte a Lugano dove resteranno per circa un anno o dove nascerà
Dina, la figlioletta che porta il nome della mamma di Lucia, morta da
tempo e prima dei fatti del romanzo. È tutto un sbracciarsi di
personaggi comprimari, grandi e piccoli, meridionali e
settentrionali, italiani, svizzeri, pugliesi campani siciliani
emigrati settentrionali trasferitisi al Sud — tutti non fanno altro
che mostrare il loro amore, la loro comprensione per le difficoltà
di Gino e Lucia, che brillano per gratitudine e magneticamente
attirano su di loro il bene come i santi le preghiere, le pene ed il
martirio e poi la corona di gloria della ricompensa celeste.
Il fatto è che noi stentiamo a
credervi non perché sia una esagerazione strappalacrime di Elio
Cardillo, uomo dai forti sentimenti e dalla fede profonda e
animosissima; quanto perché il cinismo che ci avvolge ogni giorno da
ogni parte ci ha reso più duri e cinici, mentre in queste pagine il
correttivo di bontà e semplicità arriva ad ogni riga, in quelle
piccole pennellate che Cardillo — lo ricordiamo, poeta in primo
luogo e per vocazione, e fotografo anche con la penna — si concede
quando descrive piccoli elementi del paesaggio o dei gesti dei
personaggi con un tono che risalta diversamente rispetto alla prosa
consueta, e la solleva e la illumina come per evitarne degli eccessi,
che il romanzo peraltro non segue mai. In due casi addirittura, il
vocabolario si innalza a voci che sono tipiche di chi pensa per versi
e non per prosa: “La pietra bianca accecava, e i ficus fitti nel
color di mirto, sapevano serenare gli occhi:
infiniti i passeri che, se pur mille, diventavano un solo cinguettio.
E poi le cicale a stridulare in coro e il
cicaleccio nel vespro stordiva l’aria. In farmacia il dottor Paolo
apriva anche la porticina sul retro, e la corrente d’aria fresca
del mare lì dietro, profumata di sale, frescava farmaci
e gente”. Serenare, stridulare, frescava,
sono parole di chi dipinge, di chi coglie immagini e suoni per farne
poesia, e non certo di chi scrive semplicemente (senza nulla
togliere, anzi, rafforzando!) un romanzo. Fosse mai semplice
scriverne uno: e questi tratti ancora manzoniani ce lo indicano — e
sono tratti del Manzoni più “poetico” del 1827, di quello che fa
ancora parlare i personaggi anche in una loro lingua più lombarda,
non certo di quel Manzoni del 1840 che ebbe ancor più successo di
pubblico ma fece arrabbiare il geniale glottologo Graziadio Isaia
Ascoli per quella lingua tanto diversa ed “estranea” alla Lecco
del 1628.
Non mancano quindi tutti gli elementi
che ricordiamo come familiari dal romanzo di Manzoni, alcuni in
parallelo, altri ribaltati: l’addio ai monti notturno è un
addio a Siracusa ed al rumore del mare; la vigna di Renzo devastata
dai Lanzichenecchi è la farmacia distrutta due volte, con l’inganno,
da Rocco e Carmelo, allagata, sventrata e poi quasi data alle fiamme
nel finale del romanzo; don Ferrante e donna Prassede sono ribaltati
un po’ in Carlo e Gaetana, e poi soprattutto in Nino e Luisella;
don Abbondio vigliacco e pusillanime è un don Mario che altrettanto
non svetta per coraggio, e se mitiga le sue paure con il grande
affetto verso Lucia e poi verso Gino, ha pure lui le sue pecche di
giovane prelato omosessuale — tributo ad un realismo attualizzante
che Cardillo descrive con garbo e sempre avendo in mente l’azione
di quella Provvidenza che rialzerà sul finale il parroco ormai
morente, facendolo somigliare a un Fra Cristoforo in extremis.
Cardillo non può e non vuole
sviluppare ogni traccia che gli si presenta fra le dita mentre
scrive: potrebbe parlare indifferentemente di ricette tradizionali
preparate a Lentini o a Siracusa, a Noto dagli avvocati Rizza o a
Varese o a Laveno Ponte Tresa, così come potrebbe approfondire le
lotte bracciantili quando racconta che il rinfresco del matrimonio di
Gino e Lucia si tiene alla Camera Socialista, o quando parla di Saro
e dell’incidente che gli spappola il ginocchio. Potrebbe strizzare
l’occhio ad uno sviluppo più salace della vicenda quando racconta
dei complimenti del chirurgo dottor Patti a Lucia sua collaboratrice,
che “avevano il potere di farla sentire desiderata” e “la
infiammavano nel suo essere seducente, e stuzzicavano la donna che la
sua modestia non poteva nascondere”, e magari potrebbe
accentuare maggiormente i pensieri di Gino che nella sua intelligente
semplicità si rende conto che qualcosa non quadra quando Lucia dice
di non volere il chirurgo al loro matrimonio. Potrebbe; ed in questi
ed altri casi sparsi lungo il romanzo non vuole; tace, sorvola, fa
intuire, proprio con l’arte immaginifica di un fotografo che sa
bene quanto non solo non si possa con la camera imitare la cinepresa
e quindi cercare di cogliere tutto molto di più che
nell’inquadratura ferma della fotografia, ma ancor più quanto sia
impossibile con qualsiasi telecamera perfino modernissima descrivere
ogni cosa e contemporaneamente nelle sue sfaccettature. Il motivo
vero è che la realtà va evocata, proprio come insegna Gorgia e come
indicano i poeti: e Cardillo è e rimane poeta anche nel romanzo.
Il fatto è che non si tratta di un
romanzo: la forma è quella, certo; ma la vis che anima le
pagine è quella di un cuntu, la storia narrata a sera dagli
anziani agli altri coetanei e soprattutto ai più piccoli. Lì non si
deve né si può spiegare tutto, e si deve lasciar correre
l’immaginazione, che è come il desiderio, perché non ha le regole
della vita quotidiana ma altre tutte sue. Un po’ come continuare a
sognare, come fanno ogni volta Gino e Lucia, di dividere un unico
pasticcino al cioccolato, “un morso io, un morso tu”.
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