Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

sabato 20 settembre 2008

La "Parola" nei "Diari" di Franz Kafka

26 Dicembre 1910. Due giorni e mezzo ero solo (benchè non del tutto) e già sono, se non mutato, sulla via di esserlo. La solitudine ha su di me un potere che non si smentisce mai. Il mio intimo si scioglie (per ora soltanto superficialmente) ed è disposto a lasciare via libera a qualcosa di più profondo. S'incomincia a costruire un piccolo ordine del mio intimo che è ciò che più mi occorre, poichè non c'è di peggio del disordine quando si hanno esigue capacità.
27 Dicembre. La mia energia non è più sufficiente a formulare una proposizione. Eh sì, si trattasse di parole, se bastasse aggiungere una parola e si potesse allontanarsi con la coscienza tranquilla di aver completamente empito di sé questa parola.
Alla fine del suo primo anno di resoconto personale, Franz Kafka ha ampliato la cerchia delle sue conoscenze nel mondo praghese, ha frequentato salotti intellettuali e incontrato studiosi e pensatori (su tutti Albert Einstein) e dunque anche le idee sulla relatività delle leggi fisiche e l'insondabilità dell'animo umano (la psicanalisi). Si prepara a viaggi in molte località europee e viene dall'esperienza di un club a ispirazione socialista rivoluzionaria - sta male, e nell'anno successivo frequenterà una casa di cura per la sua malattia polmonare.
Finirà di scrivere i suoi Diari tredici anni dopo, un anno prima della morte (avvenuta il 3 giugno del '24, mentre l'ultima pagina del diario reca la data 12 giugno 1923), con una costante attenzione per le parole, e la Parola in particolare - la cifra del mutismo e del silenzio che avvolge i suoi racconti e i romanzi.
È un'attenzione tutta ebraica, teologica: anche se Kafka diffidava delle interpretazioni teologiche che potevano venire ai suoi scritti applicate - eppure la costanza, la pendolarità almeno del tema mostra quanta necessità vi fosse di affrontarlo, di superare paure e reticenze anche verbali, scrittorie verso quel pensiero.
Sempre più pavido nello scrivere. Ed è comprensibile. Ogni parola rigirata nella mano degli spiriti - questo slancio della mano è il loro movimento caratteristico - diventa una lancia rivolta contro chi parla. In modo particolare un'osservazione come questa. E così all'infinito. L'unica consolazione sarebbe: accade, tu voglia o non voglia. E ciò che vuoi è di aiuto appena percettibile. Più che consolazione è: che anche tu possiedi armi.
Chi è il tu a cui si rivolge Kafka?
Si tratta forse di una donna, forse la Krizanovskaja che compare nella voce immediatamente precedente nel diario? O la Krizanovskaja è una strada, illustrata in cartolina come nel medesimo passo si legge? O il tu è riferito alla compagna degli ultimi mesi di Kafka, Dora Dyamant? O lo scrittore si rivolge a Dio? Oppure a sé stesso?
In ogni caso quelle armi che sono di consolazione nell'ultimo pensiero di Kafka, sono armi la parola e il destino che le incombe, quello cioè di essere strumenti offensivi che si rivoltano contro verso chi le pronuncia, termini e voci che si è perso il potere di dominare e di indirizzare ma che invece cercano, uscendo dai denti, la loro violenta libertà trasformandosi in lance che colpiscono il parlante, anche quando pensa e ancora non ha pronunciato nulla.
Nemmeno Kafka è padrone, come tanti poeti del Novecento, della parola e del suo potere nominatorio - il fatto è che qui non si tratta di una diminutio nella potenza conoscitiva che deriva dal possedere l'alfabeto del mondo, quanto di scoprire che la vera natura dei pensieri e dei concetti che le parole esprimono è infida e minacciosa, violenta e imprevedibilmente crudele, pronta a lottare contro il proprio creatore.
Come se il Mondo, portato all'esistenza da Dio con la Parola, si mostrasse riottoso verso quell'atto, che in realtà non presuppone Dio e addirittura lo cancella ("[...] diventa una lancia rivolta contro chi parla. In modo particolare un'osservazione come questa. E così all'infinito. L'unica consolazione sarebbe: accade, tu voglia o non voglia").
A cosa valgano delle armi che condividono lo stesso destino per un altro parlante, è facile immaginare: alla distruzione ancor più totale e coinvolgente di una Guerra non soltanto mondiale, non meramente umana - un'immagine sarebbe quella a Kafka contemporanea dell'ecpirosi finale de La coscienza di Zeno di Italo Svevo. La completa distruzione di ogni rapporto basato sul linguaggio, ragione o affetto e sentimento che sia; dunque la distruzione di ogni rapporto con Dio.
Inutile allora lanciare una profezia ex post con Kafka e arrivare dalle sue parole al genocidio consumato da lì a qualche anno nella Germania nazista - non solo il silenzio di Dio, ma le parole di libertà - "Arbeit macht frei" - che divennero lance.

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