Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

giovedì 13 giugno 2024

La città bioinformatica

Stavo leggendo lo stimolante saggio di Franco Ferrarotti, decano della sociologia in Italia, intitolato La città transnazionale e pubblicato da Armando nel 2023 – un libro bello, dedicato a ragionamenti sulle migrazioni, le periferie ed il loro complesso statuto di nuovi luoghi di "cuore dislocato" della città del futuro, perché, come dice l'autore "Centro e periferia, città e campagna non si contrappongono come una volta. Il momento urbano è destinato a riverberarsi, a rovesciarsi, ad estendersi anche nella periferia e nella campagna circostante per cui non abbiamo più la città contro la campagna, ma un continuum urbano-rurale che si sviluppa, uso un neologismo, in un processo di «rurbanizzazione», che è la risultante del termine latino «rus» e della moderna urbanizzazione". Assieme a questi, due capitoli dedicati alla "convivenza culturale", declinata nei termini della sicurezza da un lato, e della crisi dell'eurocentrismo dall'altra parte, in cui il sociologo ricorda come "Occorre convincersi che la storia europea non è la storia del mondo. Per questa ragione l’Europa deve essere messa in guardia contro la sua supponenza, la sua presunta vocazione al primato. Il «nuovo ordine mondiale», di cui si tende a discettare troppo corrivamente, non dovrebbe a cuor leggero dimenticare, prima ancora dei grandi anniversari, come quello di Colombo, la giovanile baldanza di Alessandro Magno, che insegue il sogno d’un Governo mondiale marciando verso la Persia e l’India, certo per portarvi il lògos greco, ma forse anche, istintivamente (intuitivamente?), per riattingervi il senso religioso del mistero, del non perfettamente intelligibile in termini razionali. L’Europa unita che sta laboriosamente nascendo dopo Maastricht non mi sembra sufficientemente consapevole della sua storia, della sua originale funzione. Non sembra aver capito fino in fondo che la sua forza è quella delle differenze. Si preoccupa dei bilanci in ordine, che è buona cosa, ma non si avvede che solo uscendo dalla prospettiva di una litigiosa «Europa delle patrie», per usare la formula cara a Charles de Gaulle, sarà possibile far nascere l’Europa nuova di cui il mondo ha bisogno. Non sono passati molti anni da quando Paul Valéry si interrogava sulla grandezza e decadenza dell’Europa ancora nello spirito di una sorta di sentinella dei valori nobili per tutta l’umanità: «L’Europa è stata questo luogo privilegiato; l’Europeo, lo spirito europeo, l’autore di questi prodigi. Che cosa è dunque questa Europa? – continuava a domandarsi Valéry – È una sorta di capo del vecchio continente, una appendice occidentale dell’Asia, che guarda naturalmente verso Ovest. A Sud, è al bordo di un mare illustre il cui ruolo, dovrei dire la cui funzione, è stata meravigliosamente efficace nella elaborazione di questo spirito europeo di cui ci occupiamo». Ma neppure un uomo dell’intelligenza di Valéry sembra comprendere che i meriti dell’Europa non possono essere invocati per reggere l’insostenibile idea di un primato europeo, per giustificare il sinistro «pregiudizio eurocentrico»", afferma con mano ferma Ferrarotti, che conclude ribandendo come "La storia d’Europa non è dunque la storia universale. L’Europa non è tutto il mondo", sintesi che non avrebbe bisogno di molte spiegazioni se non vi fossero dentro tutte le ragioni che lo stesso studioso ha espresso nelle righe precedenti.


Come spesso mi capita durante lo studio, sono andato a integrare la mia "dieta mediterranea" abituale di umanista con alcune curiosità differenti e scientifiche, in particolare con la lettura dell’ultimo libro di Christoph Adami, The Evolution of Biological Information. How Evolution creates Complexity, from Viruses to Brains, pubblicato da Princeton University Press nel 2024.

Christoph Adami è uno dei massimi esperti di Biologia computazionale e Bioinformatica, e propone una lunga (sono 584 pagine) e dettagliatissima disamina di cosa sia, come sia strutturata, come si possa riconoscere, quantificare e gestire l’informazione biologica a tutti i livelli di organizzazione degli esseri viventi, con un ricco capitolo iniziale sui principi e le origini del Darwinismo, ed altri legati all’evoluzione dei concetti di “complessità”, “robustezza” e “informazione” all’interno dei loro reciproci ruoli per intendere cosa siano la “cooperazione” e l’«intelligenza» da un punto di vista biologico (oltre a fornire di tutt'altro che banali esercizi la parte finale di ogni capitolo, dopo i tanti grafici ed equazioni ad ogni pagina). Mi sono anche consolato rispetto al timore che il mio (connaturato) disordine di lettore rapsodico non fosse anche totalmente inutile e segno di inefficacia della concentrazione quando sono arrivato a p. 323, all'inizio appunto del capitolo sull'evoluzione della robustezza, quando ho letto che "When populations evolve and accumulate information about the environment in their genes, not all that information is about how to better exploit the environment. Some of that information is used to make sure that the organism can continue to survive even in extraordinarily challenging circumstances. In fact (while exact numbers are not known) it may very well be that a majority of genes are there to ensure robustness in the face of unpredictable conditions" ("Quando le popolazioni evolvono e accumulano informazioni sull'ambiente nei loro geni, non tutte queste informazioni riguardano il modo di sfruttare meglio l'ambiente. Parte di queste informazioni viene utilizzata per garantire che l'organismo possa continuare a sopravvivere anche in circostanze straordinariamente difficili. In effetti (per quanto i numeri esatti non sono noti) è molto probabile che la maggior parte dei geni sia lì per garantire la robustezza di fronte a condizioni imprevedibili"), e insomma, mi sono consolato ripensando a quanto anche un umanista non dovrebbe quindi nutrirsi solo di argomenti umanistici, parafrasando col sorriso il vecchio Terenzio!


Nel frattempo stavo controllando, come controcanto "tecnico" al saggio classicamente sociologico di Ferrarotti, la raccolta di articoli scientifici curata da Ali Cheshmehzangi (a capo della School of Architecture, Design and Planning dell’Università del Queensland, in Australia), Michael Batty (ricercatore associato al Centre for Advanced Spatial Analysis della Facoltà di Built Environment dell’University College di Londra), Zaheer Allam (che è uno Urban Strategist e ricercatore come Honorary Fellow presso la School of Architecture & Built Environment dell’Università Deakin di Victoria, in Australia)  e David S. Jones (professore presso la Monash University Melbourne, in Australia), City Information Modelling, pubblicata da Springer nel 2024, in cui si descrive in dieci stimolantissimi contributi il modello di approccio multidisciplinare di progettazione e gestione urbana basato sull'integrazione di dati raccolti, tecnologie e strumenti analitici, dunque tutto all'insegna di un uso sempre più complesso e strettamente integrato dell'informazione – chiedo scusa per il bisticcio – in ogni sua forma

Superando il Building Information Modeling, un approccio basato sull'utilizzo e la progettazione urbanistica centrato sull'ottimizzazione delle costruzioni (abitative, lavorative, commerciali), e seguendo altresì gli United Nations’ Sustainable Development Goals, cioè gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, il City Information Modeling spazia da soluzioni concrete per migliorare i livelli di salute dei cittadini (con il caso di studio della sua applicazione a Sidney) a soluzioni per l'ottimizzazione della progettazione urbana attraverso modelli matematici tesi a rafforzare e migliorare le prestazioni delle strutture cittadine nella gestione della pandemia di COVID-19, fino a mostrare straordinari risultati di gestione dei rischi naturali (terremoti, inondazioni, tsunami) ed efficaci soluzioni di gestione delle linee di trasporto e di collocazione degli impianti industriali nevralgici nella città di Tekirdağ, un capoluogo di provincia da 140 mila abitanti vicinissimo a Istanbul sul mar di Marmara. Questi esempi, così come il caso di studio sulla gestione delle aree verdi per mitigare le "isole di caldo" nella città metropolitana di Teheran negli ultimi vent'anni, o quello sull'analisi inversa dell'applicazione di questi modelli complessi integrati tra raccolta dei dati, analisi e informatizzazione con le loro ricadute sulla "maturità istituzionale" (la versione sociopolitica della "robustezza informazionale" di cui parla la bioinformatica, per capirci riducendo grossolanamente) della città di Curitiba, la capitale federale brasiliana con la migliore qualità della vita e città premiata nel 2010 come la più ecosostenibile del Mondo, mostrano come l'approccio sistemico, complesso, "organico" perché "ispirato all'ottimizzazione naturale" del City Information Modeling sia non solo teoreticamente ben fondato, ma anche efficace e fortemente scalabile tra l'applicazione in grandi agglomerati urbani e piccoli centri.


Saltabeccando quindi tra un testo decisamente molto più "familiare" anche per le mie competenze letterarie-storico-filosofiche e l'altro invece estremamente "scientifico" mi sono incuriosito per la coincidenza dell’«informazione» nel titolo del saggio di Adami e della raccolta sul CIM (e non per una sorta di sorridente affinità linguistica col mio cognome, sia chiaro!), ed ho aggiunto alla lettura un testo ulteriormente tecnico, la raccolta curata da Vijai Singh (professore ordinario di Biologia sintetica e Decano per la ricerca e l’innovazione presso la School of Sciences della Indrashil University a Rajpur, in India) e Ajay Kumar (professore associato nel Dipartimento di Bioinformatica della Central University of South Bihar a Gaya, in India), Advances in Bioinformatics. Second Edition, pubblicata inizialmente da Springer nel 2021 e aggiornata in questo 2024, dove ho trovato l’interessantissimo articolo di Juveriya Israr, Sahabjada Siddiqui, Sankalp Misra, Indrajeet Singh e Ajay Kumar, “Bioinformatics in Pathway Identification, Design, Modelling, and Simulation”, che si legge alle pp. 181-198.

Molti hanno forse presente l'esperimento del 2010 descritto in quest'articolo (https://www.wired.com/2010/01/slime-mold-grows-network-just-like-tokyo-rail-system/), in cui si dà conto di un esperimento condotto con una popolazione di muffe ameboidi di Physarum polycephalum, che venne fatta crescere su un supporto in cui il cibo era posizionato in luoghi che corrispondevano (in scala) alle stazioni della metropolitana di Tokyo. Il plasmodio nel corso di sole 24 ore non soltanto riuscì a raggiungere tutti i punti traendone quindi nutrimento, ma riprodusse con i suoi tubuli l’esatta mappa delle effettive linee ferroviarie disegnate dagli ingegneri, in molti casi ottimizzando anche i percorsi rispetto a quelli progettati dall’intelligenza umana; il tutto compiuto da un organismo considerato alla base della scala evolutiva, e però significativamente “polycephalum”, “dalle molte teste”.

Physarum già dieci anni prima, nel 2000, era riuscito a risolvere, trovando l’uscita in modo estremamente facile, un rompicapo in forma di labirinto, sia in versione planare sia un versione tridimensionale; ed Heather Barnett, l’artista e professoressa inglese studiosa di sistemi complessi emergenti che più si è occupata di questo ameboide, ha raccolto sul suo sito internet (https://heatherbarnett.co.uk/work/the-physarum-experiments/) diversi video e una nutrita bibliografia sulle decine di esperimenti condotti appunto con Physarym polycephalum.

Questo è solo uno delle migliaia di esempi possibili di una intricatissima (e bellissima) storia del progresso scientifico dedicata ai Bio-Nature-Inspired Optimization Algorithms (“algoritmi di ottimizzazione ispirati alla Natura ed alla biologia”), di cui il lettore curioso può leggere una iniziale disamina, ad esempio, andando a questa pagina, https://medium.com/@siam_VIT-B/history-of-bio-inspired-algorithms-and-introduction-to-nature-inspired-approaches-10f33db3c43d

L’articolo di Israr, Siddiqui, Misra, Singh e Kumar è uno studio di diversi software di modellazione matematica delle interazioni dei medicinali utilizzati nelle terapie geniche contro il cancro innanzitutto, ma in generale delle reazioni dei tessuti e delle cellule ai medicinali stessi, nell’ottica di ricostruire il “pathway”, il percorso biochimico-fisiologico di rete delle differenti interazioni nell’organismo.


Se l’analogia con l’«intelligenza distribuita» di Physarum polycephalum nel “calcolare i percorsi” a me (da profano, e senza l’aiuto di ChatGPT, come qualche malizioso potrebbe pensare) è parsa lampante nel confronto con questi metodi bioinformatici, ancora di più ho trovato una profonda analogia con l’articolo di Andrea Gabrielli, Valentina Macchiati e Diego Garlaschelli, “Critical Density for Network Reconstruction”, che si legge alle pp. 223-249 ed è contenuto nel Festschrift dedicato ad Alfredo Ferro, originario di Ramacca e pioniere della Computer Science e della Bioinformatica a livello mondiale ed all’Università di Catania, cioè la raccolta curata dai colleghi del professor Ferro Domenico Cantone (professore ordinario di Informatica presso il Dipartimento di Matematica e Informatica dell’Università di Catania) e Alfredo Pulvirenti (anche lui professore ordinario di Informatica presso lo stesso Dipartimento, con un percorso di studi più incline agli insegnamenti di Medicina clinica e sperimentale), intitolata From Computational Logic to Computational Biology. Essays Dedicated to Alfredo Ferro to Celebrate His Scientific Career, pubblicata da Springer ancora una volta in questo ricco 2024.

L’articolo di Gabrielli, Macchiati e Garlaschelli è una disamina sia teorica sia pratica di risultati di economia finanziaria che i tre autori hanno ottenuto analizzando vaste banche dati dei mercati allo scopo di ricostruire i percorsi di scambio di titoli e denaro, trovando come (lo riduco in estrema sintesi) il livello di “ricostruibilità” sia legato alla densità di interrelazioni fra gli attori economici, e come nelle reti meno dense di scambi la maggiore “ricostruibilità” sia proporzionale alla eterogeneità delle strutture. Quella che in tanti discorsi anche divulgativi, se si parlasse di sistemi ecologici, sarebbe la famosa “biodiversità”, per intenderci.

L’articolo immediatamente precedente nella raccolta, scritto da Alessio Biondo, Alessandro Pluchino e Andrea Rapisarda e intitolato “Efficient Random Strategies for Taming Complex Socio-economic Systems” (alle pagine 186-222 del volume), come se facesse il paio con le considerazioni sociopolitiche dedicate a Curitiba da Cheshmehzangi, Batty, Allam e Jones nell’articolo sul CIM ricordato poco sopra, spiega gli effetti positivi (anche per la “ricostruibilità” dei percorsi nelle reti sociali di cui hanno studiato le condizioni Gabrielli, Macchiati e Garlaschelli nel loro articolo) della risonanza stocastica, cioè il positivo effetto informativo dei fenomeni fisici casuali per il quale Giorgio Parisi ha ricevuto il premio Nobel per la Fisica nel 2021. 

Biondo, Pluchino e Rapisarda (che sono stati allievi di Alfredo Ferro nelle Scuole Estive da lui organizzate e promosse a Lipari per tanti anni) hanno analizzato sia organizzazioni più tipicamente aziendali, sia questioni di efficienza dei sistemi democratici pubblici, allo scopo di confermare o smentire il cosiddetto Principio di Peter, secondo il quale “In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza”, e per cui come corollario discenderebbe il fatto che promuovere i dipendenti più abili sia fonte di ricadute positive in termini di efficacia. Gli studiosi hanno invece mostrato come in generale delle promozioni che seguano quel metodo portino risultati di ben più bassa efficacia rispetto al metodo per cui vi sono delle promozioni di carriera casuali. Anche per i sistemi democratici, gli autori dello studio hanno trovato (con dati statistici dedotti in particolare da esperienze politiche in Irlanda, Belgio, Germania) che in un parlamento formato da membri tutti affiliati a gruppi bloccati dai partiti l’efficienza legislativa diminuisce drasticamente, mentre la loro “regola d’oro” di inferenza statistica (formulata anche da una equazione empiricamente forte) recita che “the optimal number of independent legislators which maximizes the parliament efficiency as a function of the percentage of the majority party or coalition” (“Il numero ottimale di legislatori indipendenti che massimizza l’efficienza del parlamento come funzione della percentuale del partito di maggioranza o della coalizione") è attorno all’80%. Ancora una volta, aggiungo dunque, in linea col rispetto dell’«intelligenza distribuita» e della “biodiversità sociale”.


A questo punto mi sono incuriosito, se possibile, ancora di più, ed ho recuperato un volume collettaneo che, partendo dagli algoritmi “bio-nature-inspired”, si occupa ancora una volta di sostenibilità nelle costruzioni urbane attraverso il biomimicry (letteralmente, “imitazione della [struttura] biologica”), vale a dire la raccolta di saggi di Olusegun Aanuoluwapo Oguntona (che è Senior Lecturer al Department of Built Environment della Walter Sisulu University di Butterworth, in Sud Africa) e Clinton Ohis Aigbavboa (che è professore ordinario di Sviluppo Umano Sostenibile nel Dipartimento di Construction Management and Quantity Surveying dell’Università di Johannesburg, Sud Africa) intitolata Biomimicry and Sustainable Building Performance. A Nature-inspired Sustainability Guide for the Built Environment, Routledge 2024. I saggi del volume sono tutti dentro il paradigma della Nature-Inspired Optimization e oltre a esemplificazioni concrete di esperienze sudafricane nell’ottica del cosiddetto “Green Building”, cioè il paradigma costruttivo di limitazione ed ottimizzazione degli impatti ecologici e di miglioramento delle performance energetiche complessive attraverso l’integrazione di elementi vegetali e in generale naturali negli edifici stessi, offrono alcuni capitoli (in particolare, nella Parte Seconda, il 5, Biomimicry Paradigm. Nature Inspiration and Emulation; e nella Parte Quarta, il 10, The Conceptual Biomimicry Sustainability Assessment Tool, che oltre a considerazioni filosofiche offre anche uno strumento di valutazione e validazione per le industrie costruttive) di sintesi teorica rispetto al biomimicry, alle prospettive concettuali ed alle ricadute rispetto all’economia del settore costruttivo e del più vasto settore energetico.


Io che non sono affatto né uno scienziato né un sociologo né un economista mi sono convinto sempre più della profonda capacità di ispirazione teoretica di questi approcci modellati sull’intelligenza naturale distribuita, ma questo poco conta oltre al puro fatto personale, di portata statistica nulla. Ben diverso discorso sarebbe invece quello di desiderare questi libri presto tradotti in italiano per raggiungere un pubblico di certo almeno un po’ più vasto, e desiderare comunque che gli addetti ai lavori (certo, con una decisa propensione alla interdisciplinarietà che è ormai sempre più necessaria) studino questi risultati, avendo ruoli di responsabilità politico-amministrativa, progettuale e decisionale, visto che è (o dovrebbe essere) ormai assodato il principio che ispira il nuovo paradigma delle Biocities, che non sono più soltanto delle Smart Cities, di cui si parla nella raccolta di saggi di Giuseppe E. Scarascia-Mugnozza (professore ordinario di Selvicoltura e Ecofisiologia forestale e docente del Dottorato in Scienza della Sostenibilità presso l'Università della Tuscia), Vicente Guallart (uno dei più importanti architetti spagnoli, fondatore dell’Institute for Advanced Architecture of Catalonia), Fabio Salbitano (professore associato presso il Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari), Giovanna Ottaviani Aalmo (ricercatrice di Econometria eProduzione economica presso il Norwegian Institute of Bioeconomy Research) e Stefano Boeri (uno dei più famosi architetti e teorici dell’architettura italiani ed internazionali, che insegna Urbanistica presso il Politecnico di Milano), intitolata Transforming Biocities. Designing Urban Spaces Inspired by Nature e  pubblicata da Springer pochi mesi fa nel 2023.

Le Biocities si scontrano ancora con i vecchi paradigmi dell’economia, del mercato del lavoro, delle dinamiche sociali e politiche; ma sono le soluzioni di ottimizzazione ispirate ai processi naturali che fanno vedere tutte le loro potenzialità anche economiche, oltre che di preciso orientamento etico, nei paradigmi costruttivi e gestionali di questi agglomerati del futuro, che – per citare solo l’ultimo, interessantissimo capitolo intitolato Towards BioCities: The Pathway to Transition – dovrebbero essere considerati come “ecosistemi forestali”.

Si legge infatti “Nature embedded means that the BioCity should include a wide variety of species, ecosystems and habitats which are planned and sustained at all spatial and temporal levels. In a BioCity the circular bioeconomy is essential as it ensures that biological material are wholly integrated into products, development processes and that waste is regarded as a renewable resource. BioCities do not live apart from the wider region beyond the municipal boundary, which is not only local but regional and global too. The supply chain for the city is vast and closer to the BioCity as green infrastructure networks and urban forests extend into peri-urban areas and beyond, an instance among many that speak of the urban rural nexus. Finally, adaptive management ensures that policy and planning of forest based solutions are reviewed and revised based on actual observation in a socio-ecological learning paradigm. [...] The key idea to emerge from these principles is to envision the planning and management of a BioCity as a ‘forest analogue’. When considering the properties of this forest analogue, and hence how it might link to a city (or an urban area of any scale), it is useful to consider the forest as an ecosystem, or a community with countless interrelated pieces. In fact, the Convention on Biological Diversity (SCBD 2001) describes forest ecosystems as a ‘dynamic complex of plant, animal and microorganism communities, and their abiotic environment, that interact as a functional unit that reflects the dominance of ecosystem conditions and processes by trees. Humans, with their cultural, economic and environmental needs, are an integral part of many forest ecosystems’. Forest ecosystems are a key element of global green infrastructure (GI). The GI concept has gained traction over the last few decades, including its key ideas of multifunctionality and connectivity. Returning to the analogue, forest ecosystems are highly multifunctional and well-connected at both the micro and macro scales, and directly relate to GI. Through appropriate city planning and policy, the same principles of multifunctionality and connectivity should be embedded in the creation of the BioCity. Humans continue to play a major role in forest ecosystems. Foresters managing forests in both urban and rural areas often play the role of inter-generational conservators of forest ecosystems. For centuries, foresters have been a vital part of the cultural, economic, and environmental benefits that forests have provided to the community. Current foresters build on the knowledge and experience of their pre-decessors and provide a segue to the next generation. The city analogue to the forester legacy is to ensure that the same long-term principles exist in policymaking for city planning and management, which is a notable challenge given that short-termism is rife in urban politics.

Forest ecosystems are managed not just by foresters, however, but by many different types of professionals (e.g. geologists, hydrologists, wildlife biologists, and civil engineers). They are an exemplary example of a transdisciplinary approach. The professions are by no means limited to those working in either forestry or arboriculture, but also include planners, economists, sociologists, and many more. In much the same way, managing the BioCity should be transdisciplinary. Forest ecosystems are highly dynamic and, in a mature state, represent a highly sustainable self-renewing community. They are complex biological systems that are vertically and horizontally stratified, much more so than other terrestrial ecosystems. The urban analogue to forest ecosystems is that not only should the city be home to different species, but also to a diverse range of humanity. This complex biological community applies equally at the human scale as it does at the biodiversity scale. Of notable importance is that forest ecosystems also contain substantive abiotic ele-ments. In view of this, the interaction between the biological (living) environment and the physical (abiotic) infrastructure in the BioCity is analogous to the forest ecosystem. In many instances cities can look to nature-based approaches when they renew their physical infrastructure, hence rebalancing the biotic–abiotic nexus. Over time in the BioCity, the biotic quotient will increase and the abiotic quotient will decrease. Both forest ecosystems and BioCities, however, should not be seen solely as biological”, che tradotto in italiano suona più o meno “La natura integrata significa che la BioCittà dovrebbe includere una vasta varietà di specie, ecosistemi e habitat che sono pianificati e sostenuti a tutti i livelli spaziali e temporali. In una BioCittà, la bioeconomia circolare è essenziale poiché garantisce che i materiali biologici siano completamente integrati nei prodotti e nei processi di sviluppo, e che i rifiuti siano considerati una risorsa rinnovabile. Le BioCittà non vivono isolate dalla regione più ampia oltre il confine municipale, che non è solo locale, ma anche regionale e globale. La catena di approvvigionamento per la città è vasta e più vicina alla BioCittà, poiché le reti di infrastrutture verdi e le foreste urbane si estendono nelle aree periurbane e oltre, un esempio tra i tanti che testimoniano il nesso urbano-rurale. Infine, la gestione adattativa garantisce che le politiche e la pianificazione delle soluzioni basate sulle foreste siano riviste e modificate in base all'osservazione effettiva in un paradigma di apprendimento socio-ecologico. [...] L'idea chiave che emerge da questi principi è di immaginare la pianificazione e la gestione di una BioCittà come un "analogo della foresta". Quando si considerano le proprietà di questo analogo della foresta, e quindi come potrebbe collegarsi a una città (o a un'area urbana di qualsiasi dimensione), è utile considerare la foresta come un ecosistema, o una comunità con innumerevoli parti interconnesse. Infatti, la Convenzione sulla Diversità Biologica (SCBD 2001) descrive gli ecosistemi forestali come un "complesso dinamico di comunità di piante, animali e microorganismi, e il loro ambiente abiotico, che interagiscono come un'unità funzionale che riflette il dominio delle condizioni e dei processi ecosistemici da parte degli alberi. Gli esseri umani, con i loro bisogni culturali, economici e ambientali, sono parte integrante di molti ecosistemi forestali". Gli ecosistemi forestali sono un elemento chiave dell'infrastruttura verde globale (GI). Il concetto di GI ha guadagnato capacità di trazione negli ultimi decenni, includendo le sue idee chiave di multifunzionalità e connettività. Ritornando all'analogia, gli ecosistemi forestali sono altamente multifunzionali e ben collegati sia a scala micro sia macro, e si riferiscono direttamente alla GI (infrastruttura verde globale). Attraverso una pianificazione e una politica urbana appropriate, gli stessi principi di multifunzionalità e connettività dovrebbero essere integrati nella creazione della BioCittà. Gli esseri umani continuano a rivestire un ruolo importante negli ecosistemi forestali. I dipendenti delle agenzie forestali che gestiscono le foreste nelle aree urbane e rurali spesso svolgono il ruolo di conservatori intergenerazionali degli ecosistemi forestali. Per secoli, gli operatori forestali sono stati una parte vitale dei benefici culturali, economici e ambientali che le foreste hanno fornito alla comunità. I dipendenti forestali attuali si basano sulla conoscenza e sull'esperienza dei loro predecessori e forniscono un collegamento con la prossima successiva generazione. L'analogo urbano all'eredità dei forestali è garantire che gli stessi principi a lungo termine esistano nella creazione delle politiche per la pianificazione e la gestione urbana, il che rappresenta una sfida notevole dato che il pensiero a breve termine è dilagante nella politica urbana. Gli ecosistemi forestali non sono d’altronde gestiti solo dagli operatori forestali, ma da molti tipi diversi di professionisti (ad esempio, geologi, idrologi, biologi della fauna selvatica e ingegneri civili). Sono un esempio esemplare di approccio transdisciplinare. Le professioni non si limitano affatto a coloro che lavorano nella silvicoltura o nell'arboricoltura, ma includono anche pianificatori, economisti, sociologi e molti altri. Allo stesso modo, la gestione della BioCittà dovrebbe essere transdisciplinare. Gli ecosistemi forestali sono altamente dinamici e, in uno stato maturo, rappresentano una comunità altamente sostenibile e autorinnovante. Sono sistemi biologici complessi che sono stratificati sia verticalmente che orizzontalmente, molto più di altri ecosistemi terrestri. L'analogo urbano agli ecosistemi forestali è che la città non dovrebbe solo essere casa di diverse specie, ma anche di una gamma diversificata di umanità. Questa complessa comunità biologica si applica ugualmente alla scala umana come alla scala della biodiversità. Di notevole importanza è che gli ecosistemi forestali contengono anche elementi abiotici sostanziali. In vista di ciò, l'interazione tra l'ambiente biologico (vivente) e l'infrastruttura fisica (abiotica) nella BioCittà è analoga all'ecosistema forestale. In molti casi, le città possono guardare a soluzioni basate sulla natura quando rinnovano la loro infrastruttura fisica, riequilibrando così il nesso biotico-abiotico. Nel tempo, nella BioCittà, il quoziente biotico aumenterà e il quoziente abiotico diminuirà. Tuttavia, sia gli ecosistemi forestali sia le BioCittà non dovrebbero essere visti solo come biologici”.


Per dirla, quindi, chiudendo il cerchio, con una parafrasi di Ferrarotti, la città del futuro sarà (o dovrà essere) non soltanto transnazionale, ma anche così fortemente ispirata da quel che la biologia vegetale ed animale insegna, da tornare al suo rinnovato ruolo di città naturale, con la coscienza in più di quel che potrà significare per chi la abiterà.