Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

giovedì 13 giugno 2024

La città bioinformatica

Stavo leggendo lo stimolante saggio di Franco Ferrarotti, decano della sociologia in Italia, intitolato La città transnazionale e pubblicato da Armando nel 2023 – un libro bello, dedicato a ragionamenti sulle migrazioni, le periferie ed il loro complesso statuto di nuovi luoghi di "cuore dislocato" della città del futuro, perché, come dice l'autore "Centro e periferia, città e campagna non si contrappongono come una volta. Il momento urbano è destinato a riverberarsi, a rovesciarsi, ad estendersi anche nella periferia e nella campagna circostante per cui non abbiamo più la città contro la campagna, ma un continuum urbano-rurale che si sviluppa, uso un neologismo, in un processo di «rurbanizzazione», che è la risultante del termine latino «rus» e della moderna urbanizzazione". Assieme a questi, due capitoli dedicati alla "convivenza culturale", declinata nei termini della sicurezza da un lato, e della crisi dell'eurocentrismo dall'altra parte, in cui il sociologo ricorda come "Occorre convincersi che la storia europea non è la storia del mondo. Per questa ragione l’Europa deve essere messa in guardia contro la sua supponenza, la sua presunta vocazione al primato. Il «nuovo ordine mondiale», di cui si tende a discettare troppo corrivamente, non dovrebbe a cuor leggero dimenticare, prima ancora dei grandi anniversari, come quello di Colombo, la giovanile baldanza di Alessandro Magno, che insegue il sogno d’un Governo mondiale marciando verso la Persia e l’India, certo per portarvi il lògos greco, ma forse anche, istintivamente (intuitivamente?), per riattingervi il senso religioso del mistero, del non perfettamente intelligibile in termini razionali. L’Europa unita che sta laboriosamente nascendo dopo Maastricht non mi sembra sufficientemente consapevole della sua storia, della sua originale funzione. Non sembra aver capito fino in fondo che la sua forza è quella delle differenze. Si preoccupa dei bilanci in ordine, che è buona cosa, ma non si avvede che solo uscendo dalla prospettiva di una litigiosa «Europa delle patrie», per usare la formula cara a Charles de Gaulle, sarà possibile far nascere l’Europa nuova di cui il mondo ha bisogno. Non sono passati molti anni da quando Paul Valéry si interrogava sulla grandezza e decadenza dell’Europa ancora nello spirito di una sorta di sentinella dei valori nobili per tutta l’umanità: «L’Europa è stata questo luogo privilegiato; l’Europeo, lo spirito europeo, l’autore di questi prodigi. Che cosa è dunque questa Europa? – continuava a domandarsi Valéry – È una sorta di capo del vecchio continente, una appendice occidentale dell’Asia, che guarda naturalmente verso Ovest. A Sud, è al bordo di un mare illustre il cui ruolo, dovrei dire la cui funzione, è stata meravigliosamente efficace nella elaborazione di questo spirito europeo di cui ci occupiamo». Ma neppure un uomo dell’intelligenza di Valéry sembra comprendere che i meriti dell’Europa non possono essere invocati per reggere l’insostenibile idea di un primato europeo, per giustificare il sinistro «pregiudizio eurocentrico»", afferma con mano ferma Ferrarotti, che conclude ribandendo come "La storia d’Europa non è dunque la storia universale. L’Europa non è tutto il mondo", sintesi che non avrebbe bisogno di molte spiegazioni se non vi fossero dentro tutte le ragioni che lo stesso studioso ha espresso nelle righe precedenti.


Come spesso mi capita durante lo studio, sono andato a integrare la mia "dieta mediterranea" abituale di umanista con alcune curiosità differenti e scientifiche, in particolare con la lettura dell’ultimo libro di Christoph Adami, The Evolution of Biological Information. How Evolution creates Complexity, from Viruses to Brains, pubblicato da Princeton University Press nel 2024.

Christoph Adami è uno dei massimi esperti di Biologia computazionale e Bioinformatica, e propone una lunga (sono 584 pagine) e dettagliatissima disamina di cosa sia, come sia strutturata, come si possa riconoscere, quantificare e gestire l’informazione biologica a tutti i livelli di organizzazione degli esseri viventi, con un ricco capitolo iniziale sui principi e le origini del Darwinismo, ed altri legati all’evoluzione dei concetti di “complessità”, “robustezza” e “informazione” all’interno dei loro reciproci ruoli per intendere cosa siano la “cooperazione” e l’«intelligenza» da un punto di vista biologico (oltre a fornire di tutt'altro che banali esercizi la parte finale di ogni capitolo, dopo i tanti grafici ed equazioni ad ogni pagina). Mi sono anche consolato rispetto al timore che il mio (connaturato) disordine di lettore rapsodico non fosse anche totalmente inutile e segno di inefficacia della concentrazione quando sono arrivato a p. 323, all'inizio appunto del capitolo sull'evoluzione della robustezza, quando ho letto che "When populations evolve and accumulate information about the environment in their genes, not all that information is about how to better exploit the environment. Some of that information is used to make sure that the organism can continue to survive even in extraordinarily challenging circumstances. In fact (while exact numbers are not known) it may very well be that a majority of genes are there to ensure robustness in the face of unpredictable conditions" ("Quando le popolazioni evolvono e accumulano informazioni sull'ambiente nei loro geni, non tutte queste informazioni riguardano il modo di sfruttare meglio l'ambiente. Parte di queste informazioni viene utilizzata per garantire che l'organismo possa continuare a sopravvivere anche in circostanze straordinariamente difficili. In effetti (per quanto i numeri esatti non sono noti) è molto probabile che la maggior parte dei geni sia lì per garantire la robustezza di fronte a condizioni imprevedibili"), e insomma, mi sono consolato ripensando a quanto anche un umanista non dovrebbe quindi nutrirsi solo di argomenti umanistici, parafrasando col sorriso il vecchio Terenzio!


Nel frattempo stavo controllando, come controcanto "tecnico" al saggio classicamente sociologico di Ferrarotti, la raccolta di articoli scientifici curata da Ali Cheshmehzangi (a capo della School of Architecture, Design and Planning dell’Università del Queensland, in Australia), Michael Batty (ricercatore associato al Centre for Advanced Spatial Analysis della Facoltà di Built Environment dell’University College di Londra), Zaheer Allam (che è uno Urban Strategist e ricercatore come Honorary Fellow presso la School of Architecture & Built Environment dell’Università Deakin di Victoria, in Australia)  e David S. Jones (professore presso la Monash University Melbourne, in Australia), City Information Modelling, pubblicata da Springer nel 2024, in cui si descrive in dieci stimolantissimi contributi il modello di approccio multidisciplinare di progettazione e gestione urbana basato sull'integrazione di dati raccolti, tecnologie e strumenti analitici, dunque tutto all'insegna di un uso sempre più complesso e strettamente integrato dell'informazione – chiedo scusa per il bisticcio – in ogni sua forma

Superando il Building Information Modeling, un approccio basato sull'utilizzo e la progettazione urbanistica centrato sull'ottimizzazione delle costruzioni (abitative, lavorative, commerciali), e seguendo altresì gli United Nations’ Sustainable Development Goals, cioè gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, il City Information Modeling spazia da soluzioni concrete per migliorare i livelli di salute dei cittadini (con il caso di studio della sua applicazione a Sidney) a soluzioni per l'ottimizzazione della progettazione urbana attraverso modelli matematici tesi a rafforzare e migliorare le prestazioni delle strutture cittadine nella gestione della pandemia di COVID-19, fino a mostrare straordinari risultati di gestione dei rischi naturali (terremoti, inondazioni, tsunami) ed efficaci soluzioni di gestione delle linee di trasporto e di collocazione degli impianti industriali nevralgici nella città di Tekirdağ, un capoluogo di provincia da 140 mila abitanti vicinissimo a Istanbul sul mar di Marmara. Questi esempi, così come il caso di studio sulla gestione delle aree verdi per mitigare le "isole di caldo" nella città metropolitana di Teheran negli ultimi vent'anni, o quello sull'analisi inversa dell'applicazione di questi modelli complessi integrati tra raccolta dei dati, analisi e informatizzazione con le loro ricadute sulla "maturità istituzionale" (la versione sociopolitica della "robustezza informazionale" di cui parla la bioinformatica, per capirci riducendo grossolanamente) della città di Curitiba, la capitale federale brasiliana con la migliore qualità della vita e città premiata nel 2010 come la più ecosostenibile del Mondo, mostrano come l'approccio sistemico, complesso, "organico" perché "ispirato all'ottimizzazione naturale" del City Information Modeling sia non solo teoreticamente ben fondato, ma anche efficace e fortemente scalabile tra l'applicazione in grandi agglomerati urbani e piccoli centri.


Saltabeccando quindi tra un testo decisamente molto più "familiare" anche per le mie competenze letterarie-storico-filosofiche e l'altro invece estremamente "scientifico" mi sono incuriosito per la coincidenza dell’«informazione» nel titolo del saggio di Adami e della raccolta sul CIM (e non per una sorta di sorridente affinità linguistica col mio cognome, sia chiaro!), ed ho aggiunto alla lettura un testo ulteriormente tecnico, la raccolta curata da Vijai Singh (professore ordinario di Biologia sintetica e Decano per la ricerca e l’innovazione presso la School of Sciences della Indrashil University a Rajpur, in India) e Ajay Kumar (professore associato nel Dipartimento di Bioinformatica della Central University of South Bihar a Gaya, in India), Advances in Bioinformatics. Second Edition, pubblicata inizialmente da Springer nel 2021 e aggiornata in questo 2024, dove ho trovato l’interessantissimo articolo di Juveriya Israr, Sahabjada Siddiqui, Sankalp Misra, Indrajeet Singh e Ajay Kumar, “Bioinformatics in Pathway Identification, Design, Modelling, and Simulation”, che si legge alle pp. 181-198.

Molti hanno forse presente l'esperimento del 2010 descritto in quest'articolo (https://www.wired.com/2010/01/slime-mold-grows-network-just-like-tokyo-rail-system/), in cui si dà conto di un esperimento condotto con una popolazione di muffe ameboidi di Physarum polycephalum, che venne fatta crescere su un supporto in cui il cibo era posizionato in luoghi che corrispondevano (in scala) alle stazioni della metropolitana di Tokyo. Il plasmodio nel corso di sole 24 ore non soltanto riuscì a raggiungere tutti i punti traendone quindi nutrimento, ma riprodusse con i suoi tubuli l’esatta mappa delle effettive linee ferroviarie disegnate dagli ingegneri, in molti casi ottimizzando anche i percorsi rispetto a quelli progettati dall’intelligenza umana; il tutto compiuto da un organismo considerato alla base della scala evolutiva, e però significativamente “polycephalum”, “dalle molte teste”.

Physarum già dieci anni prima, nel 2000, era riuscito a risolvere, trovando l’uscita in modo estremamente facile, un rompicapo in forma di labirinto, sia in versione planare sia un versione tridimensionale; ed Heather Barnett, l’artista e professoressa inglese studiosa di sistemi complessi emergenti che più si è occupata di questo ameboide, ha raccolto sul suo sito internet (https://heatherbarnett.co.uk/work/the-physarum-experiments/) diversi video e una nutrita bibliografia sulle decine di esperimenti condotti appunto con Physarym polycephalum.

Questo è solo uno delle migliaia di esempi possibili di una intricatissima (e bellissima) storia del progresso scientifico dedicata ai Bio-Nature-Inspired Optimization Algorithms (“algoritmi di ottimizzazione ispirati alla Natura ed alla biologia”), di cui il lettore curioso può leggere una iniziale disamina, ad esempio, andando a questa pagina, https://medium.com/@siam_VIT-B/history-of-bio-inspired-algorithms-and-introduction-to-nature-inspired-approaches-10f33db3c43d

L’articolo di Israr, Siddiqui, Misra, Singh e Kumar è uno studio di diversi software di modellazione matematica delle interazioni dei medicinali utilizzati nelle terapie geniche contro il cancro innanzitutto, ma in generale delle reazioni dei tessuti e delle cellule ai medicinali stessi, nell’ottica di ricostruire il “pathway”, il percorso biochimico-fisiologico di rete delle differenti interazioni nell’organismo.


Se l’analogia con l’«intelligenza distribuita» di Physarum polycephalum nel “calcolare i percorsi” a me (da profano, e senza l’aiuto di ChatGPT, come qualche malizioso potrebbe pensare) è parsa lampante nel confronto con questi metodi bioinformatici, ancora di più ho trovato una profonda analogia con l’articolo di Andrea Gabrielli, Valentina Macchiati e Diego Garlaschelli, “Critical Density for Network Reconstruction”, che si legge alle pp. 223-249 ed è contenuto nel Festschrift dedicato ad Alfredo Ferro, originario di Ramacca e pioniere della Computer Science e della Bioinformatica a livello mondiale ed all’Università di Catania, cioè la raccolta curata dai colleghi del professor Ferro Domenico Cantone (professore ordinario di Informatica presso il Dipartimento di Matematica e Informatica dell’Università di Catania) e Alfredo Pulvirenti (anche lui professore ordinario di Informatica presso lo stesso Dipartimento, con un percorso di studi più incline agli insegnamenti di Medicina clinica e sperimentale), intitolata From Computational Logic to Computational Biology. Essays Dedicated to Alfredo Ferro to Celebrate His Scientific Career, pubblicata da Springer ancora una volta in questo ricco 2024.

L’articolo di Gabrielli, Macchiati e Garlaschelli è una disamina sia teorica sia pratica di risultati di economia finanziaria che i tre autori hanno ottenuto analizzando vaste banche dati dei mercati allo scopo di ricostruire i percorsi di scambio di titoli e denaro, trovando come (lo riduco in estrema sintesi) il livello di “ricostruibilità” sia legato alla densità di interrelazioni fra gli attori economici, e come nelle reti meno dense di scambi la maggiore “ricostruibilità” sia proporzionale alla eterogeneità delle strutture. Quella che in tanti discorsi anche divulgativi, se si parlasse di sistemi ecologici, sarebbe la famosa “biodiversità”, per intenderci.

L’articolo immediatamente precedente nella raccolta, scritto da Alessio Biondo, Alessandro Pluchino e Andrea Rapisarda e intitolato “Efficient Random Strategies for Taming Complex Socio-economic Systems” (alle pagine 186-222 del volume), come se facesse il paio con le considerazioni sociopolitiche dedicate a Curitiba da Cheshmehzangi, Batty, Allam e Jones nell’articolo sul CIM ricordato poco sopra, spiega gli effetti positivi (anche per la “ricostruibilità” dei percorsi nelle reti sociali di cui hanno studiato le condizioni Gabrielli, Macchiati e Garlaschelli nel loro articolo) della risonanza stocastica, cioè il positivo effetto informativo dei fenomeni fisici casuali per il quale Giorgio Parisi ha ricevuto il premio Nobel per la Fisica nel 2021. 

Biondo, Pluchino e Rapisarda (che sono stati allievi di Alfredo Ferro nelle Scuole Estive da lui organizzate e promosse a Lipari per tanti anni) hanno analizzato sia organizzazioni più tipicamente aziendali, sia questioni di efficienza dei sistemi democratici pubblici, allo scopo di confermare o smentire il cosiddetto Principio di Peter, secondo il quale “In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza”, e per cui come corollario discenderebbe il fatto che promuovere i dipendenti più abili sia fonte di ricadute positive in termini di efficacia. Gli studiosi hanno invece mostrato come in generale delle promozioni che seguano quel metodo portino risultati di ben più bassa efficacia rispetto al metodo per cui vi sono delle promozioni di carriera casuali. Anche per i sistemi democratici, gli autori dello studio hanno trovato (con dati statistici dedotti in particolare da esperienze politiche in Irlanda, Belgio, Germania) che in un parlamento formato da membri tutti affiliati a gruppi bloccati dai partiti l’efficienza legislativa diminuisce drasticamente, mentre la loro “regola d’oro” di inferenza statistica (formulata anche da una equazione empiricamente forte) recita che “the optimal number of independent legislators which maximizes the parliament efficiency as a function of the percentage of the majority party or coalition” (“Il numero ottimale di legislatori indipendenti che massimizza l’efficienza del parlamento come funzione della percentuale del partito di maggioranza o della coalizione") è attorno all’80%. Ancora una volta, aggiungo dunque, in linea col rispetto dell’«intelligenza distribuita» e della “biodiversità sociale”.


A questo punto mi sono incuriosito, se possibile, ancora di più, ed ho recuperato un volume collettaneo che, partendo dagli algoritmi “bio-nature-inspired”, si occupa ancora una volta di sostenibilità nelle costruzioni urbane attraverso il biomimicry (letteralmente, “imitazione della [struttura] biologica”), vale a dire la raccolta di saggi di Olusegun Aanuoluwapo Oguntona (che è Senior Lecturer al Department of Built Environment della Walter Sisulu University di Butterworth, in Sud Africa) e Clinton Ohis Aigbavboa (che è professore ordinario di Sviluppo Umano Sostenibile nel Dipartimento di Construction Management and Quantity Surveying dell’Università di Johannesburg, Sud Africa) intitolata Biomimicry and Sustainable Building Performance. A Nature-inspired Sustainability Guide for the Built Environment, Routledge 2024. I saggi del volume sono tutti dentro il paradigma della Nature-Inspired Optimization e oltre a esemplificazioni concrete di esperienze sudafricane nell’ottica del cosiddetto “Green Building”, cioè il paradigma costruttivo di limitazione ed ottimizzazione degli impatti ecologici e di miglioramento delle performance energetiche complessive attraverso l’integrazione di elementi vegetali e in generale naturali negli edifici stessi, offrono alcuni capitoli (in particolare, nella Parte Seconda, il 5, Biomimicry Paradigm. Nature Inspiration and Emulation; e nella Parte Quarta, il 10, The Conceptual Biomimicry Sustainability Assessment Tool, che oltre a considerazioni filosofiche offre anche uno strumento di valutazione e validazione per le industrie costruttive) di sintesi teorica rispetto al biomimicry, alle prospettive concettuali ed alle ricadute rispetto all’economia del settore costruttivo e del più vasto settore energetico.


Io che non sono affatto né uno scienziato né un sociologo né un economista mi sono convinto sempre più della profonda capacità di ispirazione teoretica di questi approcci modellati sull’intelligenza naturale distribuita, ma questo poco conta oltre al puro fatto personale, di portata statistica nulla. Ben diverso discorso sarebbe invece quello di desiderare questi libri presto tradotti in italiano per raggiungere un pubblico di certo almeno un po’ più vasto, e desiderare comunque che gli addetti ai lavori (certo, con una decisa propensione alla interdisciplinarietà che è ormai sempre più necessaria) studino questi risultati, avendo ruoli di responsabilità politico-amministrativa, progettuale e decisionale, visto che è (o dovrebbe essere) ormai assodato il principio che ispira il nuovo paradigma delle Biocities, che non sono più soltanto delle Smart Cities, di cui si parla nella raccolta di saggi di Giuseppe E. Scarascia-Mugnozza (professore ordinario di Selvicoltura e Ecofisiologia forestale e docente del Dottorato in Scienza della Sostenibilità presso l'Università della Tuscia), Vicente Guallart (uno dei più importanti architetti spagnoli, fondatore dell’Institute for Advanced Architecture of Catalonia), Fabio Salbitano (professore associato presso il Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari), Giovanna Ottaviani Aalmo (ricercatrice di Econometria eProduzione economica presso il Norwegian Institute of Bioeconomy Research) e Stefano Boeri (uno dei più famosi architetti e teorici dell’architettura italiani ed internazionali, che insegna Urbanistica presso il Politecnico di Milano), intitolata Transforming Biocities. Designing Urban Spaces Inspired by Nature e  pubblicata da Springer pochi mesi fa nel 2023.

Le Biocities si scontrano ancora con i vecchi paradigmi dell’economia, del mercato del lavoro, delle dinamiche sociali e politiche; ma sono le soluzioni di ottimizzazione ispirate ai processi naturali che fanno vedere tutte le loro potenzialità anche economiche, oltre che di preciso orientamento etico, nei paradigmi costruttivi e gestionali di questi agglomerati del futuro, che – per citare solo l’ultimo, interessantissimo capitolo intitolato Towards BioCities: The Pathway to Transition – dovrebbero essere considerati come “ecosistemi forestali”.

Si legge infatti “Nature embedded means that the BioCity should include a wide variety of species, ecosystems and habitats which are planned and sustained at all spatial and temporal levels. In a BioCity the circular bioeconomy is essential as it ensures that biological material are wholly integrated into products, development processes and that waste is regarded as a renewable resource. BioCities do not live apart from the wider region beyond the municipal boundary, which is not only local but regional and global too. The supply chain for the city is vast and closer to the BioCity as green infrastructure networks and urban forests extend into peri-urban areas and beyond, an instance among many that speak of the urban rural nexus. Finally, adaptive management ensures that policy and planning of forest based solutions are reviewed and revised based on actual observation in a socio-ecological learning paradigm. [...] The key idea to emerge from these principles is to envision the planning and management of a BioCity as a ‘forest analogue’. When considering the properties of this forest analogue, and hence how it might link to a city (or an urban area of any scale), it is useful to consider the forest as an ecosystem, or a community with countless interrelated pieces. In fact, the Convention on Biological Diversity (SCBD 2001) describes forest ecosystems as a ‘dynamic complex of plant, animal and microorganism communities, and their abiotic environment, that interact as a functional unit that reflects the dominance of ecosystem conditions and processes by trees. Humans, with their cultural, economic and environmental needs, are an integral part of many forest ecosystems’. Forest ecosystems are a key element of global green infrastructure (GI). The GI concept has gained traction over the last few decades, including its key ideas of multifunctionality and connectivity. Returning to the analogue, forest ecosystems are highly multifunctional and well-connected at both the micro and macro scales, and directly relate to GI. Through appropriate city planning and policy, the same principles of multifunctionality and connectivity should be embedded in the creation of the BioCity. Humans continue to play a major role in forest ecosystems. Foresters managing forests in both urban and rural areas often play the role of inter-generational conservators of forest ecosystems. For centuries, foresters have been a vital part of the cultural, economic, and environmental benefits that forests have provided to the community. Current foresters build on the knowledge and experience of their pre-decessors and provide a segue to the next generation. The city analogue to the forester legacy is to ensure that the same long-term principles exist in policymaking for city planning and management, which is a notable challenge given that short-termism is rife in urban politics.

Forest ecosystems are managed not just by foresters, however, but by many different types of professionals (e.g. geologists, hydrologists, wildlife biologists, and civil engineers). They are an exemplary example of a transdisciplinary approach. The professions are by no means limited to those working in either forestry or arboriculture, but also include planners, economists, sociologists, and many more. In much the same way, managing the BioCity should be transdisciplinary. Forest ecosystems are highly dynamic and, in a mature state, represent a highly sustainable self-renewing community. They are complex biological systems that are vertically and horizontally stratified, much more so than other terrestrial ecosystems. The urban analogue to forest ecosystems is that not only should the city be home to different species, but also to a diverse range of humanity. This complex biological community applies equally at the human scale as it does at the biodiversity scale. Of notable importance is that forest ecosystems also contain substantive abiotic ele-ments. In view of this, the interaction between the biological (living) environment and the physical (abiotic) infrastructure in the BioCity is analogous to the forest ecosystem. In many instances cities can look to nature-based approaches when they renew their physical infrastructure, hence rebalancing the biotic–abiotic nexus. Over time in the BioCity, the biotic quotient will increase and the abiotic quotient will decrease. Both forest ecosystems and BioCities, however, should not be seen solely as biological”, che tradotto in italiano suona più o meno “La natura integrata significa che la BioCittà dovrebbe includere una vasta varietà di specie, ecosistemi e habitat che sono pianificati e sostenuti a tutti i livelli spaziali e temporali. In una BioCittà, la bioeconomia circolare è essenziale poiché garantisce che i materiali biologici siano completamente integrati nei prodotti e nei processi di sviluppo, e che i rifiuti siano considerati una risorsa rinnovabile. Le BioCittà non vivono isolate dalla regione più ampia oltre il confine municipale, che non è solo locale, ma anche regionale e globale. La catena di approvvigionamento per la città è vasta e più vicina alla BioCittà, poiché le reti di infrastrutture verdi e le foreste urbane si estendono nelle aree periurbane e oltre, un esempio tra i tanti che testimoniano il nesso urbano-rurale. Infine, la gestione adattativa garantisce che le politiche e la pianificazione delle soluzioni basate sulle foreste siano riviste e modificate in base all'osservazione effettiva in un paradigma di apprendimento socio-ecologico. [...] L'idea chiave che emerge da questi principi è di immaginare la pianificazione e la gestione di una BioCittà come un "analogo della foresta". Quando si considerano le proprietà di questo analogo della foresta, e quindi come potrebbe collegarsi a una città (o a un'area urbana di qualsiasi dimensione), è utile considerare la foresta come un ecosistema, o una comunità con innumerevoli parti interconnesse. Infatti, la Convenzione sulla Diversità Biologica (SCBD 2001) descrive gli ecosistemi forestali come un "complesso dinamico di comunità di piante, animali e microorganismi, e il loro ambiente abiotico, che interagiscono come un'unità funzionale che riflette il dominio delle condizioni e dei processi ecosistemici da parte degli alberi. Gli esseri umani, con i loro bisogni culturali, economici e ambientali, sono parte integrante di molti ecosistemi forestali". Gli ecosistemi forestali sono un elemento chiave dell'infrastruttura verde globale (GI). Il concetto di GI ha guadagnato capacità di trazione negli ultimi decenni, includendo le sue idee chiave di multifunzionalità e connettività. Ritornando all'analogia, gli ecosistemi forestali sono altamente multifunzionali e ben collegati sia a scala micro sia macro, e si riferiscono direttamente alla GI (infrastruttura verde globale). Attraverso una pianificazione e una politica urbana appropriate, gli stessi principi di multifunzionalità e connettività dovrebbero essere integrati nella creazione della BioCittà. Gli esseri umani continuano a rivestire un ruolo importante negli ecosistemi forestali. I dipendenti delle agenzie forestali che gestiscono le foreste nelle aree urbane e rurali spesso svolgono il ruolo di conservatori intergenerazionali degli ecosistemi forestali. Per secoli, gli operatori forestali sono stati una parte vitale dei benefici culturali, economici e ambientali che le foreste hanno fornito alla comunità. I dipendenti forestali attuali si basano sulla conoscenza e sull'esperienza dei loro predecessori e forniscono un collegamento con la prossima successiva generazione. L'analogo urbano all'eredità dei forestali è garantire che gli stessi principi a lungo termine esistano nella creazione delle politiche per la pianificazione e la gestione urbana, il che rappresenta una sfida notevole dato che il pensiero a breve termine è dilagante nella politica urbana. Gli ecosistemi forestali non sono d’altronde gestiti solo dagli operatori forestali, ma da molti tipi diversi di professionisti (ad esempio, geologi, idrologi, biologi della fauna selvatica e ingegneri civili). Sono un esempio esemplare di approccio transdisciplinare. Le professioni non si limitano affatto a coloro che lavorano nella silvicoltura o nell'arboricoltura, ma includono anche pianificatori, economisti, sociologi e molti altri. Allo stesso modo, la gestione della BioCittà dovrebbe essere transdisciplinare. Gli ecosistemi forestali sono altamente dinamici e, in uno stato maturo, rappresentano una comunità altamente sostenibile e autorinnovante. Sono sistemi biologici complessi che sono stratificati sia verticalmente che orizzontalmente, molto più di altri ecosistemi terrestri. L'analogo urbano agli ecosistemi forestali è che la città non dovrebbe solo essere casa di diverse specie, ma anche di una gamma diversificata di umanità. Questa complessa comunità biologica si applica ugualmente alla scala umana come alla scala della biodiversità. Di notevole importanza è che gli ecosistemi forestali contengono anche elementi abiotici sostanziali. In vista di ciò, l'interazione tra l'ambiente biologico (vivente) e l'infrastruttura fisica (abiotica) nella BioCittà è analoga all'ecosistema forestale. In molti casi, le città possono guardare a soluzioni basate sulla natura quando rinnovano la loro infrastruttura fisica, riequilibrando così il nesso biotico-abiotico. Nel tempo, nella BioCittà, il quoziente biotico aumenterà e il quoziente abiotico diminuirà. Tuttavia, sia gli ecosistemi forestali sia le BioCittà non dovrebbero essere visti solo come biologici”.


Per dirla, quindi, chiudendo il cerchio, con una parafrasi di Ferrarotti, la città del futuro sarà (o dovrà essere) non soltanto transnazionale, ma anche così fortemente ispirata da quel che la biologia vegetale ed animale insegna, da tornare al suo rinnovato ruolo di città naturale, con la coscienza in più di quel che potrà significare per chi la abiterà.



venerdì 1 luglio 2022

Due conferenze di Massimo Cacciari a Siracusa: Euripide, Goethe, Spengler, Musil

 Il 29 e il 30 giugno del 2022 Massimo Cacciari ha tenuto due conferenze a Siracusa, nei pressi del Teatro Greco, dedicate entrambe ad alcuni "campioni" (in ogni senso) del pensiero occidentale: l'Ifigenia in Tauride di Euripide e l'Ifigenia di Goethe il 29 giugno; il Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler visto nella comparazione con L'Uomo senza Qualità di Musil giorno 30 giugno.

Ho scritto due brevi osservazioni sulle due conferenze, nella forma di scolii e piccole amplificazioni interpretative.

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Ieri pomeriggio [29 giugno, ndr], tra il frinire alternato delle cicale e il gran caldo del Teatro Greco di Siracusa, Massimo Cacciari ha condotto un dialogo serrato tra Goethe ed Euripide riguardo il plesso fondamentale della libertà e del nomos nelle "Ifigenie" di questi due autori fondamentali della cultura occidentale.
Roberto Fai ed Elio Cappuccio, che hanno introdotto la lectio di Cacciari, hanno bene messo in rilievo non solo la poliedricità dello studioso, ma anche le stimolantissime amplificazioni che ne sono sorte, e che il tempo ben ristretto ieri per tutti i partecipanti ed il mio post oggi non consentono affatto di delineare.
Stamattina leggevo con molto piacere e interesse un analogo post di Elvira Siringo, anche lei ieri fra il pubblico: Elvira ha con grande perspicacia evidenziato un "terzo assente" (ma presentissimo nel discorso tra Euripide e Goethe di Cacciari), che è Shakespeare, di cui lei è studiosa attenta.
E ieri fra le tante questioni che sono emerse, più di una ha evocato Gorgia da Leontinoi, non solo per i "dissoi logoi" richiamati più volte da Elio Cappuccio e da Massimo Cacciari.
È Gorgia infatti che in un frammento di carattere estetico e dedicato al teatro (per la precisione, 82 B 23 DK) individua nella consapevole accettazione dell'inganno tragico la radice della saggezza: questa è la prima affermazione della "sospensione d'incredulità" che è alla base del "piacere" del testo e della letteratura e dell'arte, ma non propone né presuppone affatto una sospensione dell'intelligenza, ma anzi ne dichiara il superiore valore più che razionale.
Me ne sono occupato in un breve saggio qualche anno fa, appunto dedicato a Gorgia ed alle sue radici indoeuropee.
Ma è proprio il mondo indoeuropeo che ad esempio è alla base anche della "metamorfosi anti-tragica" di Goethe più volte ricordata ieri: in un suo bellissimo studio del 1984, "Tragedy and After: Euripides, Shakespeare, Goethe", Ekbert Faas ha tutto un capitolo dedicato a "Goethe's Transcendence of Tragedy" in cui analizza attraverso le lettere indirizzate a Jacobi l'influenza profonda che ebbe il poeta indiano Kālidāsa su Goethe, ed in generale la poetica sanscrita contrapposta a quella aristotelica.
Ma anche un altro importantissimo saggio del 2009 di Markus Winkler, "Von Iphigenie zu Medea. Semantik und Dramaturgie des Barbarischen bei Goethe und Grillparzer", specie nel capitolo dedicato a "Humanisierung der Barbaren, Griechenland-Nostalgie und der Streit über Mythos und Menschenopfer", analizza e approfondisce il concetto che Cacciari ha più volte evocato parlando di Goethe ieri pomeriggio: quello della "rinuncia" come passaggio imprescindibile per il progresso dell'eroe tragico che "cadendo si compie".
Splendida conferenza davvero ieri.

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Anche la seconda conferenza di Massimo Cacciari per il suo breve ciclo dedicato alla lettura di alcuni classici del pensiero occidentale è stata profondamente illuminante, surclassando il gran caldo afoso di Siracusa ieri pomeriggio, ancora nelle prossimità del Teatro Greco. Del resto, parlare del "Tramonto dell'Occidente" di Oswald Spengler, e passarlo al tornasole col Musil di "L'Uomo senza Qualità", non era certo tema da far diminuire la temperatura del discorso.
Nuovamente introdotta da Elio Cappuccio e Roberto Fai (che ha con decisione e perizia ragionato sulla temperie di "crisi e trasmutazione" di tutto il periodo a cavallo fra Ottocento e Novecento, ed ha opportunamente ricordato gli ultimi studi che Cacciari ha dedicato a Max Weber e, recentissimo, proprio a Musil), la lectio ha allacciato diverse raffinate prospettive sul saggio culminante della cultura europea all'incrocio del "lungo diciannovesimo secolo" e del "secolo breve".
Anche per la conferenza di ieri non ho affatto l'ardire di fornire una benché minima sintesi, ma mi permetto solo di aggiungere degli scolii: per gli amici che lo vorranno, sono disponibile a fornire la registrazione audio di entrambe le giornate, così che possano gustare da sé lo sviluppo del pensiero di Cacciari.
In più riprese, nella parte centrale della conferenza, alcune allusioni sono state determinanti per lo sviluppo dell'argomentazione.
In primo luogo, quando è stato detto più volte che per Spengler "Il Mondo è l'insieme dei casi", vale a dire dei "fatti" che significativamente Cacciari ha chiamato "Zufälle" (letteralmente, le "occasioni", come "Occaso" era già stato richiamato da Roberto Fai come il "nome-destino" dell'Occidente), ovviamente il pensiero è andato per molti alla prima proposizione del "Tractatus logico-philosophicus" di Ludwig Wittgenstein, "Die Welt ist alles, was der Fall ist", cioè "Il Mondo è tutto ciò che accade"; ma si potrebbe tradurre, restando ancor più aderenti alla lettera "Il Mondo è tutto ciò che è un caso".
Da una parte Spengler che (ad esempio e nella gran messe di citazioni possibili) all'inizio dell'opera dice "Die Welt des Zufalls ist die Welt der einmalig-wirklichen Tatsachen, denen wir als Zukunft sehnsüchtig oder angstvoll entgegenleben, die uns als lebendige Gegenwart erheben oder bedrücken, die wir schauend als Vergangenheit mit Freude oder Trauer wiedererleben können. Die Welt der Ursachen und Wirkungen ist die Welt des Beständig-Möglichen, die Welt der zeitlosen Wahrheiten, die man zerlegend und unterscheidend erkennt", cioè "Il mondo del caso è il mondo dei fatti reali irripetibili, di quelli futuri verso cui la nostra vita, in desiderio o in angoscia, procede, di quelli che nel presente vissuto ci esaltano o ci abbattono, di quelli passati che meditando possiamo rivivere con gioia o con tristezza. Il mondo delle cause e degli effetti è il mondo del possibile e del costante, delle verità senza tempo conosciute analizzando e distinguendo".
Dall'altra parte Wittgenstein, che al di là delle formulazioni lapidarie diversissime dal fluire metamorfico dello stile di Spengler, afferma: "Es erschiene gleichsam als Zufall, wenn dem Ding, das allein für sich bestehen könnte, nachträglich eine Sachlage passen würde. Wenn die Dinge in Sachverhalten vorkommen können, so muss dies schon in ihnen liegen. (Etwas Logisches kann nicht nur-möglich sein. Die Logik handelt von jeder Möglichkeit und alle Möglichkeiten sind ihre Tatsachen.) Wie wir uns räumliche Gegenstände überhaupt nicht außerhalb des Raumes, zeitliche nicht außerhalb der Zeit denken können, so können wir uns keinen Gegenstand außerhalb der Möglichkeit seiner Verbindung mit anderen denken. Wenn ich mir den Gegenstand im Verbande des Sachverhalts denken kann, so kann ich ihn nicht außerhalb der Möglichkeit dieses Verbandes denken", cioè "Parrebbe quasi un accidente se alla cosa, che potesse sussistere per sé sola, successivamente potesse convenire una situazione. Se le cose possono ricorrere in stati di cose, ciò deve già essere in esse.
(Qualcosa di logico non può essere solo-possibile. La logica tratta di ogni possibilità, e tutte le possibilità sono i suoi fatti. )
Come non possiamo affatto concepire oggetti spaziali fuori dello spazio, oggetti temporali fuori del tempo, così noi non possiamo concepire alcun oggetto fuori della possibilità del suo nesso con altri. Se posso concepire l’oggetto nel contesto dello stato di cose, io non posso concepirlo fuori della possibilità di questo contesto". In entrambi gli autori emerge prepotentemente quella "ragione probabilistica" che Cacciari ha evocato ieri.
Sarà lo stesso studioso, in un altro passaggio, ad affermare che per Spengler lo storico deve parlare soltanto dei fatti/casi, e per il resto deve tacere: limpida evocazione dell'ultima proposizione del "Tractatus", "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere".
In secondo luogo, quando Cacciari ha analizzato le posizioni di Spengler riguardo la crisi e la dissoluzione della forma-Stato come punto-evento culminante del destino dell'Occidente (e "destino", va detto, in tedesco è "Bestimmung" in quanto "determinazione", ma anche "Schicksal" in quanto appunto "casualità", "Zufall"), ha comparato le prospettive epistemologiche di Musil e di Spengler, facendo un rapido cenno alla intraducibilità già del titolo del romanzo di Musil.
"Der Mann ohne Eigenschaften" in originale, "L'Uomo senza qualità" nella traduzione italiana: ma Cacciari ha ricordato che quella "Eigenschaft" è una "qualitas" in quanto è una "proprietas", il "proprium" di una persona, che – ormai fuori dalla concezione umanistica e illuministica – diventa a partire dalla massificazione della società nella seconda parte dell'Ottocento, la "proprietà economica".
Evidente quindi che il pensiero sia andato a tradurre mentalmente l'opera di Max Stirner, uno dei fondatori del pensiero anarchico, intitolata "Der Einzige und sein Eigentum" e nota in Italia come "L'Unico e la sua proprietà", come invece "L'Unico e la sua Qualità", istituendo più di un confronto possibile con Musil e con Spengler.
Non è un caso che infatti quest'ultimo dica, in una delle due citazioni che nel "Tramonto dell'Occidente" dedica a Stirner, queste considerazioni sul "corpo sociale": "Die Aufmerksamkeit, welche der Stoiker dem eigenen Körper zuwendet, widmet der abendländische Denker dem Gesellschaftskörper. Es ist kein Zufall, daß aus der Schule Hegels der Sozialismus (Marx, Engels), der Anarchismus (Stirner) und die Problematik des sozialen Dramas (Hebbel) hervorgingen. Der Sozialismus ist die ins Ethische, und zwar ins Imperativische umgewandte Nationalökonomie. Solange es eine Metaphysik großen Stils gab, bis auf Kant, blieb die Nationalökonomie eine Wissenschaft. Sobald „Philosophie" gleichbedeutend mit praktischer Ethik wurde, trat sie an Stelle der Mathematik als Unterlage des Weltdenkens. Darin liegt die Bedeutung von Cousin, Bendiam, Comte, Mill und Spencer.
Es steht dem Philosophen nicht frei, seine Stoffe zu wählen, so wenig die Philosophie immer und überall dieselben Stoffe hat. Es gibt keine ewigen Fragen; es gibt nur Fragen, die aus einem bestimmten Dasein heraus gefühlt und gestellt werden.,, Alles Vergängliche ist nur ein Gleichnis" - das gilt auch von jeder echten Philosophie als dem geistigen Ausdruck dieses Daseins, als der Verwirklichung seelischer Möglichkeiten in einer Formenwelt von Begriffen, Urteilen und Gedankenbauten, zusammengefaßt in der lebendigen Erscheinung ihres Urhebers. Eine jede ist vom ersten bis zum letzten Wort, vom abstraktesten Thema bis zum persönlichsten Charakterzug ein Gewordnes, aus der Seele in die Welt, aus dem Reiche der Freiheit in das der Notwendigkeit, aus dem unmittelbar Lebendigen ins Räumlich-Logische hinübergespiegelt und mithin vergänglich, von bestimmtem Tempo, von bestimmter Lebensdauer. Deshalb liegt eine strenge Notwendigkeit in der Wahl des Themas. Jede Epoche hat ihr eignes, das für sie und keine andre bedeutend ist. Hier sich nicht zu vergreifen, kennzeichnet den geborenen Philosophen. Der Rest der philosophischen Produktion ist belanglos, bloße Fachwissenschaft, langweilige Häufung systematischer und begrifflicher Subtilitäten", cioè "L’attenzione che gli Stoici dedicarono al loro corpo individuale, i pensatori occidentali la dedicano al corpo sociale. Non è un caso che la scuola di Hegel abbia dato luogo al socialismo (Marx, Engels,) all’anarchismo (Stirner) e ai problemi del dramma sociale (Hebbel). Il socialismo è una economia politica che riveste la forma di un’etica, e di un’etica imperativa. Finché esistette una metafisica in grande stile l’economia politica era rimasta una semplice scienza. Non appena la « filosofia » s’identificò all’etica pratica, essa prese il posto che la matematica aveva avuto quale base della concezione del mondo. Tale è il significato di Cousin, di Bentham, di Comte, di Stuart Mill e di Spencer. Al filosofo non è dato di scegliere il suo oggetto, e la filosofia non ha sempre e ovunque gli stessi problemi. Non vi sono problemi eterni; vi sono soltanto problemi sentiti e posti in base a un’esistenza di tipo determinato. « Tutto ciò che è effimero è soltanto un simbolo » — un tale principio vale anche per ogni filosofia vera, che è l’espressione spirituale di quell’esistenza, la realizzazione di possibilità dell’anima in un mondo di forme costituito da concetti, da giudizi, da costruzioni intellettuali, il quale si riassume nella persona vivente del suo autore. Ognuna di quelle realizzazioni, dalla prima all’ultima parola, dai tempi più astratti ai tratti caratteristici più personali, è un divenuto, qualcosa che dall’anima è passato a riflettersi nel mondo, dal regno della libertà in quello della necessità, e a tale stregua rappresenta qualcosa di caduco avente un dato « tempo », una limitata durata. Per cui la scelta del tema obbedisce a una necessità rigorosa. Ogni epoca possiede un suo tema, avente un significato solo per essa e per nessun’altra. Il filosofo nato è caratterizzato dall’avere un senso preciso di tale tema. Il resto della produzione filosofica è insignificante, è puro specialismo, è un’accumulazione fastidiosa di sottigliezze sistematiche e concettuali".
Fra gli interventi finali, le osservazioni del professor Emilio Galvagno hanno rivendicato a Polibio l'originale formulazione del concetto di "tramonto" come "fine di un ciclo", nel percorso della cultura occidentale. E viene dunque in mente, assieme al Gibbon che il professore citava, anche un altro prodotto crepuscolare della grande "morfologia della Storia" con cui Spengler apre e chiude l'Ottocento e il Novecento: quel ponderosissimo "A Study of History" di Arnold Toynbee, in cui ancora forse si respira l'occaso...
Infine, l'ombra lunga di Jakob Burckhardt aleggiava tra le foglie, assieme a quella di Thomas Mann... Ma sarebbe un altro discorso.
Splendida conferenza anche quella di ieri: due "occasioni" (è il caso di dirlo) davvero stimolanti.

domenica 14 febbraio 2021

Qualche parola sulla debolezza delle parole che dicono l'amore

La poesia rende l'amore altra cosa da quel che si può sperimentare senza parole; la parola trova analogie che l'amore non conosce, perché i freni che il corpo, gli anni, le timidezze diverse impongono, nella poesia non si trovano spesso che come ardite metafore, mentre nell'amore sono gesti mancati, torsioni vibranti, sguardi nel buio tesi a cogliere la presenza della persona amata, ovunque sia.

Per questo la poesia d'amore — pulsione originaria di ogni poetare — è un ponte sull'assenza, sempre: anche le splendide gioie del cuore cantate nell'ardore, si pongono come l'eco rimbombante, ma via via più rarefatta, del tepore e del fuoco; così pure il freddo ustionante dell'assenza, o la noia urgente ad ogni passo, fra i versi si volgono quasi come una danza a suo modo desiderabile.

La parola d'amore non è la parola amorosa: mette sempre un di troppo volendolo togliere, descrive ogni volta in cui vuole evocare. Solo in rari momenti di grazia il poeta si convince, e con nostalgia tace la sua parola e la dimentica, così che qualcun altro, nell'Altrove e col suo personale cammino da segnare, possa a suo modo scordarla ridandola al cuore.


I tuoi occhi — sono rimasti solo quelli
dalla stranezza che ha sottratto il volto —
mi parlano la lingua delle ombre,
sospirano la voce che ho scordato.

Un tempo erano fiamme nell'oscuro,
una carezza a me ch'ero straniero
in ogni luogo avessi respirato;
poi si spensero, aduggiandosi fiochi.

Qualcuno ci dirà che delle labbra
riuscimmo una stagione a fare a meno:
e fu nel freddo della nostra vita,

quando cenere si mescola alla bruma;
nessuno poi saprà quei vani amori
lunghi e celati agli occhi, dardeggiando.

A questo, alle parole più ovattate
dette più indentro al cuore, più sommesse,
si apre questa fine dei ricordi:

quasi che nel coraggio del confondersi
tornasse alle parole più vigore
per dirle fuori a un vero ormai invisibile.

Duro è spesso l'amore, amaro a perdersi,
mutato lungo i giorni impercettibili,
quando la carne cede ai brevi spasimi
tutto il dolce di pelle che si slaccia.

Così quando non serve più parlare
perché labbra o altri segni più non valgono,
sarà nel buio dove è eterna Luce
che quegli occhi sapranno ormai tacere.


"Vibrazione dell'idea di amore", 14.II.2021







sabato 9 gennaio 2021

DI NEBBIA E LUCE

Il nuovo, in quanto inatteso, è la sensazione repentina, dinanzi all'incertezza di ogni nebbia; è la forza prorompente del ricordo nella percezione: l'inerzia in quanto tenacia, opposizione al mutamento — lo sapeva ottimamente Spinoza. En-ergon è il "lavoro interno": il lavorio, la "forza operosa" che "affatica di moto in moto"; dunque l'energia è una "disponibilità al mutamento della forma", dal livello fisico (in quanto "della Natura") minimo a quello supremo, che si riconnettono come le volute di una spirale che unisce la ragione e gli strumenti attraverso i quali se ne prende misura — un logaritmo, propriamente parlando di spirali.

L'Essere è forse la vera impressione della memoria che è in verità "ogni" essere — esse est memini, dicevano i saggi.

Se dunque ogni panorama è un immergersi nella Luce della conoscenza, semplice e aperta percezione che prende assieme i sensi per farne senso, la nebbia ci accoglie nell'alveo dell'inconsapevolezza, non nell'impossibilità della visione. Nella nebbia si vede, ma senza vedere la visione che produce la conoscenza attraverso la percezione. Essa nebbia perciò ci libera, nel limite, dalla presunzione di sapere. 

L'Essere è: la nebbia ci aiuta a ricordarlo. Ogni oscurità è, con la sua propria Luce; altrettanto ogni luce, ogni nebbia, ogni profilo inteso delle cose, saputo con ogni occhio fisiologico, concreto ed astratto, è. 

Quel che chiamiamo "ignoranza" non è quindi ignoranza della cosa (col genitivo oggettivo), ma impotenza in noi e per noi del limite e della nebbia che è sempre sostegno anche quando non lo accettiamo e cerchiamo una visione limpida, senza "filtri", appunto come per giungere ad una verità "oggettiva". Essa però giace sotto l'inevitabile nebbia della costruzione del senso, che è una disponibilità al cambiamento di forma del campo di forze dell'Essere, diffusa in modo diseguale — anisotropo, "in una parte più e meno altrove".

Nel ricordo mutevole e diveniente L'Essere si mostra col suo inevitabile filtro, anzi lo mostra; e anche il filtro è eterno e vero nella misura parziale in cui lo concepiamo, non nel suo intero per sé.

Nella nebbia il vero è dunque più vero, e il suo certo tratto che noi cogliamo è tale, non essendo l'essere dell'Essere, ma la porzione eterna e vera del tutto luminoso ed oscuro insieme, che è la Luce che non potremo mai cogliere ma si mostra nella nube della nonconoscenza. Lì il nostro occhio lattiginoso brilla ultimamente nel fuoco senza limite.



mercoledì 6 gennaio 2021

Apparire e Nutrire, Manifestarsi e Squarciare, Brillare e Parlare

Cos'è l'apparire? In cosa è diverso dal manifestarsi, e in cosa dal brillare?

Apparire, dal verbo latino pāreō, significa "essere visibile", e quando però è coniugato con il riferimento "a qualcuno o qualcosa", significa "sottomettersi", "essere obbediente": e ciò non è solo il segno dell'«umiltà» (dunque di un legame profondo con la terra, humus, che anche etimologicamente è legata all'homō, e non solo per il mito della creazione), ma anche della capacità di "ascoltare", perché quell'obēdiō richiama proprio audiō, ed è a causa di quell'ascolto che si "obbedisce".
A cosa dunque si tende l'orecchio? O la bocca?
Quel pāreō deriva da una radice protoindoeuropea *peh₂-, col significato originario di "proteggere", e poi con quello derivato di "condurre al modo del pastore". Da quella radice è derivato il latino pāscō, cioè "conduco a mangiare degli animali", così come il nome del dio greco Pā́n, il dio che "nutre" in quanto è dio del "tutto"; ed è derivato anche pānis, il "pane", ma così pure penes e penus, cioè per il primo termine il "cibo" e insieme l'«essere sotto il comando di qualcuno", e per il secondo "la parte più interna del tempio di Vesta", che è, circolarmente, il greco hestíā, vale a dire la "terra", dunque humus). 
Ma dalla radice *peh₂- è derivato anche, con il grado vocalico ridotto, *ph₂–tḗr, "Colui che protegge e nutre poiché è visibile", il pa–dre. E in questo circolo dei suffissi d'agente come -tḗr si unisce anche l'altro suffisso d'agente, -mḗn, che si è unito alla radice al grado vocalico forte per derivare *poh₂–i–mḗn, il greco poimḗn, che è anche il "maestro" oltre ad essere il "pastore", vale a dire il mēlá–tēs, cioè "Quello delle pecore" (dove il greco mêlon è però ben prima del "bestiame" invece "ogni tipo di frutto" — dunque ancora, come in un avvitamento, la totalità del "nutrimento"). Da quel grado forte *poh₂ del resto è derivato il germanico *fōdô, da cui discendono to feed, "nutrire", e food, il "cibo".
Apparire dunque, nel senso di essere visibili, è un proteggere: e la migliore forma di protezione è quella del nutrire. Dare in cibo sé stessi, se fosse possibile: la Natura lo fa nel suo eterno trasformarsi per cui ogni ente è cibo per altri enti; e non si dovrebbe dimenticare che lo stesso termine viene dal latino cibus ed imparentato con il greco kībōtós, che ancor prima di essere l'«offerta» è una "scatola di legno" — come a dire una "culla" ricavata da una "mangiatoia", non a caso.

Altro orizzonte si apre col manifestarsi, che ha una vicenda etimologica ben più breve ma non meno interessante, essendo ciò che è manifesto qualcosa che "può essere colpito con la mano". Non toccato, sia chiaro: nell'aggettivo latino mani–fēstus la manus, da cui la "mano" dell'italiano, è la "cosa che indica, segnala", e proviene dalla radice indoeuropea *men- che riguarda ogni "pensiero" e "attività spirituale" (quindi la "percezione" della realtà è svolta "teoreticamente", attraverso lo "sguardo" e l'«ascolto», e in ogni caso senza il contatto fisico); mentre il fēstus finale viene da un verbo che non è attestato autonomamente in latino, *fendō, che significa però originariamente "colpire", "spingere".
Questo verbo ha un'origine protoindoeuropea nella radice *gʷʰen-, che significava "battere", "colpire", e "uccidere"; e dalla stessa radice nel grado vocalico forte *gʷʰon-éh₂ è derivato la parola del germanico *banō, che significa sì il "campo di battaglia", ma anche uno "spazio aperto", un "percorso ripulito" (come nel tedesco moderno Bahn che è la "strada"), quindi infine una innocua "radura". 
Si potrebbe dire quindi uno squarcio nel fitto originario del bosco, nel quale (come nelle etimologie di Isidoro di Siviglia seguite, molti secoli dopo, da Martin Heidegger) si apre il lūcus, l'apertura di luce che è sacra perché "brilla", derivando dalla radice protoindoeuropea *lewk- che ha dato fra gli altri il greco leukós, il "candore abbagliante" e lúkhnos, la "lampada", ed appunto il latino lūmen e lūx.
Ma quello squarcio di luce che si apre nell'oscurità e brilla splendendo, dalla stessa radice *gʷʰen- di *fendōfēstus, attraverso *gʷʰon-yeh₂ ha dato anche il germanico *banjō, che è una "ferita": la luce fuoriesce dal lūcus, che è il "bosco sacro", e ne esce come un sangue brillante di sacrificio. La violenza necessaria dona luce e vita attraverso la morte. 

Nella apertura degli occhi e della bocca infine si può trovare la comunanza tra l'apparire e il nutrire, il manifestarsi e lo squarciare, dunque tra il "brillare" luminoso e il "parlare sacro".
La "manifestazione" di qualcosa infatti, il suo "apparire", è una epifania: essa deriva dal greco epipháneia, composto da epí e phaínō, letteralmente un "brillare dall'alto, un "brillare superiore" che discende proprio per rendersi visibile. 
Quel phaínō viene dalla radice protoindoeuropea *bʰeh₂-, che vale anzitutto "brillare", "emettere luce", ed ha dato fra gli altri il greco pháos che si è evoluto in phôs, la "luce brillante", ma anche in phṓs, il "mortale", l'«uomo» in quanto sta "sotto la luce (del Sole)", e poi ha portato al *-phḗs di saphḗs, vale a dire "ciò che è chiaro perché visto con gli occhi e compreso con la mente", e quindi alla sophíā, la luminosa "conoscenza" che è "maestria" e "ammaestramento" insieme.
Da quel *bʰeh₂- è venuto però anche il latino faveō, che è il "favorire", ma pure l'«incoraggiare» e l'«indulgere»: e proprio quest'ultimo significato non ha nulla di passivo, quanto invece una vera e propria pazienza e sopportazione, poiché nel latino in–dulgeō (come per *fendō) il verbo *dulgeō non è attestato autonomamente, ma deriva dalla radice protoindoeuropea *delgʰ- che ha (come nel greco endelekhḗs, "ciò che è continuo") il significato di "persistente, paziente". Ecco dunque come si favorisce qualcosa, essendo indulgenti in essa e con essa: essendo dei fautori e promuovendo dei gesti fausti, termini entrambi derivati dal faveō latino. Che poi un sinonimo di faustus fosse albus, il "bianco" e "chiaro" di ciò che è "favorevole", non fa che confermare la circolarità dei significati.
Potremmo contentarci di affidare quindi agli occhi questo "bagliore persistente" e "paziente" che sgorga come una "ferita" dell'oscurità che "ferisce" fino a farne uscire la "luce" vera che "nutre" nella misura in cui si rende "visibile" e "appare" come un "padre" che "guida" come un "pastore" e "protegge".
Ma da quella radice *bʰeh₂- deriva anche il preziosissimo termine latino iubar, lo "splendore radioso degli astri", la "grazia": si potrebbe dire, quello dell'apparizione di una cometa nel cielo notturno. 
La parola iubar ha due probabili ascendenze etimologiche: una la descrive come composto della radice protoindoeuropea *dyew-, che è il "chiarore del cielo" ed ha una storia formidabile che porta fino al latino Iuppiter, e appunto *bʰeh₂-, di modo che si possa indicare come un superlativo assoluto e insuperabile, il "chiarore del chiarore", la "luce che viene dalla luce". L'altra etimologia riporta iubar alla radice protoindoeuropea *Hyewdʰ-, che in latino ha dato il verbo iubeō, vale a dire il "comandare", l'«ordinare», l'«autorizzare», e in greco ha dato euthús ed eîthar, col significato di qualcosa di "diretto", "franco", "immediato" e che arriva "tutto in una volta".
Come la luce che "immediatamente" rende "visibile" la realtà, "tutta in una volta" e "una volta per tutte", e "persiste pazientemente", in modo "indulgente" e "propizio" verso chi sta osservando.
Eppure la stessa radice *bʰeh₂- collega gli occhi alla bocca, perché non indica solo il "brillare" ma anche il "parlare": da essa derivano infatti il greco phōnḗ, la "voce", ogni "suono" e "discorso" e "linguaggio", ma anche phḗmē, l'«oracolo» in quanto parola sacra e la "reputazione", e la phásis, che è l'«apparenza»; e derivano pure il latino fāma, che è rimasto tal quale in italiano, e il fātus, in quanto parola sacra pronunciata dai sacerdoti "in nome" della divinità, e la fābula, il "discorso", la "narrazione" che è propria di ogni parlare.

Quale Parola quindi può parlare brillando, e attraverso il suo manifestarsi squarciare le oscurità strappandole con forza come si apre una radura nel fitto di un bosco sacro per farvi penetrare internamente, come in un tempio, la luce splendente e che non muore, ma anzi nutre e favorisce dando sé stessa come cibo, protetto in uno scrigno di legno dal quale fuoriesce come una ferita di sacrificio che la fama proclamerà nel suo discorso?
Una Parola che può compiere la sua epifania brillando come una inestinguibile cometa che brilla sempre e una volta per tutte ricapitolando in sé stessa la Luce Primigenia con la quale il Pastore Divino del Cielo rese visibile l'eternità della realtà nella sua Gloria, come un Padre che prepara in sé e da sé il Pane Celeste e lo dona per prendersi cura del suo gregge e proteggerlo, apparendo.