Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fai voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze... (Konstantinos Kavafis)

lunedì 26 maggio 2008

Il Secolo Aereo

Quando l'affascinantissimo volume di Eric Hobsbawm dal titolo Age of Extremes - The Short Twentieth Century 1914-1991 uscì nel 1994 (in Italia ha dato anche spunto ad una sorta di categoria storiografica come quella di "secolo breve" stante il titolo della sua traduzione del 1999, Il Secolo breve - 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi), la lettura serissima e per certi versi in tutto condivisibile del Novecento proposta dallo storico britannico era stata in un certo senso preparata da un altro volume storiografico (non equiparabile - positivamente o negativamente) e profetico. Si tratta di The End of History and the last man di Francis Fukuyama, che fu pubblicato nel 1992, e che ha quasi nello stesso modo indotto alla creazione di una categoria come quella di "fine della storia".
Se il primo viene dal rigore ricostruttivo e interpretativo di Meinecke e della storiografia tedesca dell'Ottocento (non propongo una analisi puntuale delle tesi di Hobsbawm, né delle argomentazioni, ovviamente), il libro di Fukuyama sembra più legato all'esperienza di uno storico ingiustamente dimenticato come Arnold Toynbee, anch'egli antichista di formazione come il politologo nippoamericano.
La storia, s'è visto (e i dubbi potevano, nel 1992/1994, giustamente esistere) è continuata, senza curarsi troppo delle interpretazioni - e non vi sia polemica fasulla e zoppicante: i poli sono stati scompaginati e gli equilibri si sono stabilizzati verso un'ulteriore decadenza di modelli ormai invecchiati che adesso portano a immagini di catastrofi nella cultura di massa, a insabbiamenti (anche fisici) di rifiuti e a nuove mura e nuove separazioni. Quasi fosse una nuova forma di colonialismo - quella che si propone di usurpare gli ultimi luoghi incontaminati del pianeta, prima che le popolazioni povere si accorgano del misfatto.
Eppure non sfugga che il "secolo breve" del Novecento si apre e si chiude nel segno di un "secolo aereo", dominato dal progetto di Icaro, e come questo - per amor di mito e letteratura - caduto.
Non si tratta di individuare il valore inestimabile dell'aeronautica in tutti gli ambiti della vita del Novecento: sarebbe un'operazione di autoevidenza.
Ma è nel 1918 che si apre un secolo, e questo si chiude nel 2001: il maggiore Gabriele D'Annunzio sorvola con una squadriglia di aeroplani la città di Vienna e crea il primo attentato terroristico condotto con mezzi aerei, lanciando centinaia di migliaia di volantini sulla popolazione. Nei due messaggi scritti su quei fogli di carta (uno dello stesso D'Annunzio, più blando; un altro, molto più diretto e brutale, di Ugo Ojetti - si leggono a questa pagina) si intravvede la fiducia ardita nelle nuove tecnologie, la genialità comunicativa del gesto militarmente mancato, e per questo molto più efficace.
L'attacco alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York l'11 settembre 2001 è la conclusione di una logica intesa e fatta scaturire da D'Annunzio: non è tanto la morte di migliaia di persone né la contemporanea pretesa di attacco all'edificio del Pentagono - la potenza militare statunitense, occidentale - ma l'attacco al simbolo della Torre di Babele, dunque il potere tronfio che i terroristi hanno letto in chiave religiosa.
Un simile caso di attacco al simbolo può essere rinvenuto facilmente nella madre delle rivoluzioni, la presa della Torre della Bastiglia che segnò lo scoppio ufficiale della Rivoluzione Francese - ma allora si aggiungono tutte le torri e colonne fatte cadere, dalla Colonna di Austerlitz abbattuta a
Place Vendôme a Parigi durante la Comune del 1871 (quella che costò cara al pittore Courbet, ingiustamente accusato del fatto) a quella colonna fallica come la statua di Saddam Hussein all'entrata dei soldati a Baghdad - abbattuta in diretta mondiale il 9 aprile 2003.
Ma sono quindi gli aerei ad aprire e chiudere il secolo, da questo punto di vista insieme storico e latamente culturale e simbolico: anche la mondovisione dell'abbattimento della statua di Saddam è figlia della diretta delle Torri Gemelle, così come delle immagini del Muro di Berlino con le pompe ad acqua dell'esercito e di Mstislav Rostropovič che suona Bach fra i berlinesi.
Il secolo aereo aggiunge al simbolo la violenza, che non è più puramente di azioni, ma di pensieri: quello sconvolgimento che chiamiamo terrore.

L'occidente, il Petrolio e le Mura

Bellissima.
Ingrid Bergmann, con i capelli corti, le labbra rosse e morbide, la selvatichezza e la dolcezza delle sue lacrime.
Gary Cooper, le sue paure e le sue ritrosie verso il dovere, il coraggio.
Leggere "Per chi suona la campana" avendo in mente il film è una doppia esperienza esaltante, per la bravura di Hemingway e per i colori e le immagini della pellicola.
Ad aprire quel romanzo una raffinatissima citazione del poeta metafisico per eccellenza, John Donne, che nel Seicento inglese scrisse questi versi celeberrimi in un suo Sermone:

Nessun uomo è un'Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra.
Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare,
la Terra ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una Magione amica o la tua stessa Casa.
Ogni morte d'uomo mi diminusce,
perchè io partecipo all'Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.

Parlano anche di oggi, come si parla a tutte le utopie - e qualcuno già da secoli le chiama "distopie", utopie negative nelle quali si pensa il male futuro, l'abominio e lo sterminio delle persone e degli spiriti.
Ora che "la Repubblica on-line" fa leggere un articolo di Paolo Pontoniere su una futuribile e prossima società marina, da realizzare tecnologicamente sfruttando delle postazioni petrolifere off-shore da ancorare in acque internazionali, rese autonome da alimentazione energetica alternativa, e ancor più autonome perchè apolidi e senza bisogno quindi di riconoscimenti politici che non siano de facto per la loro esistenza, il cammino di questa utopia appare un po' più chiaro.
Già nei progetti si delinea la vita sulle "isole": biblioteche, luoghi di incontro, spazi privati né spartani né da nababbi - soprattutto, come sempre in questi casi, la necessità di approvvigionarsi a terra per le risorse alimentari e tecnologiche.
Qui addirittura il progetto viene allo scoperto: niente Tommaso Moro, né Campanella - collegamenti satellitari ed internettiani renderebbero le postazioni off-shore un luogo di villeggiatura diverso, dove poter dimenticare senza rischi di essere la parte di Occidente che continua a elevare mura (Israele, Padova - la vecchia Berlino, il nuovo Sud Africa) e a consumare petrolio.
Ma non vorrei proporre un ragionamento tanto banale: in realtà è Donne a scompaginare tutto dopo tre secoli dalla sua scrittura e preghiera - l'Occidente nega che la "morte d'uomo" lo diminuisca, e cerca, con i miliardari di Las Vegas e Silicon Valley, di perpetrarsi (chissà, come paradiso fiscale forse, viste le dichiarazioni sullo statuto politico già fatte circolare) in un posto tecnologicamente separato dalla morte stessa, brillante come un sogno che si desidera non tanto rendere concreto, ma appunto sognare. Questi occidentali che dovrebbero accontentarsi di giacere su un continente che è già un'isola, l'unica su cui abitiamo.
Se arriva il tramonto dell'occidente, proprio l'immagine di un paradiso costruito su postazioni petrolifere resta impressa - non possiamo fare a meno di costruire il futuro, secondo alcuni, con gli strumenti spuntati e inefficaci del presente, con quegli stessi strumenti con i quali imponiamo il futuro ad altri.

venerdì 23 maggio 2008

Il Giudice e il Mentitore: Montaigne, Zenone, Russell e Kafka

Fin dall'antichità è stato riferito - chi a Zenone Eleate, chi a Crisippo - il paradosso che va sotto il nome di Paradosso del Cretese, o Paradosso del Mentitore, e che la logica indica oggi con alcune diciture, la più conosciuta delle quali è di certo quella di Paradosso o Antinomia dei Tipi.
"Cittadini, voi che avete udito il mio discorso: io sono Cretese, e tutti i Cretesi mentono", questa più o meno la lettera del paradosso, nei tempi moderni proposta nella forma dettata con rigore di logica matematica da Bertrand Russell con la Teoria dei Tipi, e poi, dopo la scoperta dell'antinomia ad essa legata, nella forma della verità metalinguistica di Alfred Tarski.
Banalmente, se appartengo al club dei mentitori e lo dichiaro, nessuno potrà decidere - con certi strumenti formali - dove io stia dicendo la verità o pronunciando apparentemente innocue menzogne. Quindi il paradosso è stato assimilato anche a quegli altri problemi logici che riguardano l'autoconferma (come "La frase che stai leggendo ha un solo segno di punteggiatura.") e in generale i livelli di analisi per la costruzione di "Proposizioni-ben-formate".
Eppure a me è venuto da pensare ad un rapporto possibile fra un Giudice e un Mentitore, leggendo questo giudizio di Michel de Montaigne, contenuto nel Capitolo VIII, "Dell'arte di conferire" o "Dell'arte di parlare in pubblico", nel Libro Terzo degli Essais:

Il est impossible de traitter de bonne foy avec un sot. Mon jugement ne se corrompt pas seulement à la main d'un maistre si impetueux : mais aussi ma conscience.

Trattare in buona fede con un mentitore è impossibile. Il mio giudizio non si corrompe soltanto sotto la mano di un maestro così impetuoso - ma anche la mia coscienza
.

Il Giudice non deve esaminare la validità logica di quel che il Mentitore propone - deve mantenere viva la capacità di non ascoltare il suo imputato.
Alla lettera, deve usare un linguaggio che non rifletta nulla di quel che promana dall'impeto del Mentitore stesso: in un certo senso, deve giudicare una forma che non può prendere fra le mani e analizzare - il metalinguaggio del Giudice non deve in nulla scambiare termini, costruzioni, sintassi, grammatica, con quello dell'imputato Mentitore.
Ne va della buona coscienza, serena, che deve essere mantenuta - si cadrebbe in un percorso di risparmio che invece amplificherebbe il dispendio: capire cosa accada nelle parole del Mentitore, permetterebbe a questi di aver salva la vita, di scampare alla condanna.
Il Giudice, potrebbe lavorare senza Imputato, dunque.
La Giustizia creare menzogneramente la logica contro cui battersi, senza aver bisogno di vincere.
Come nel Processo di Franz Kafka.

lunedì 19 maggio 2008

Kavafis e Polimede di Argo: riflessioni su "Ricorda, corpo..."

Σώμα, θυμήσου όχι μόνο το πόσο αγαπήθηκες,
όχι μονάχα τα κρεββάτια όπου πλάγιασες,
αλλά κ’ εκείνες τες επιθυμίες που για σένα
γυάλιζαν μες στα μάτια φανερά,
κ’ ετρέμανε μες στην φωνή — και κάποιο
τυχαίον εμπόδιο τες ματαίωσε.
Τώρα που είναι όλα πια μέσα στο παρελθόν,
μοιάζει σχεδόν και στες επιθυμίες
εκείνες σαν να δόθηκες — πώς γυάλιζαν,
θυμήσου, μες στα μάτια που σε κύτταζαν·
πώς έτρεμαν μες στην φωνή, για σε, θυμήσου, σώμα.

Corpo, ricorda, e non solo quanto fosti amato,
non soltanto i letti in cui giacesti,
ma anche quei desideri che per te
brillavano chiari negli occhi,
e tremavano nella voce - e qualche
casuale ostacolo li rese vani.
Ora che tutto ormai appartiene al passato,
sembra quasi che a quei desideri
tu ti sia concesso - come brillavano,
ricorda, negli occhi che ti guardavano:
come tremavano nella voce, per te, ricorda, corpo.

Questa poesia di Konstantinos Kavafis si intitola Θυμήσου, Σώμα..., cioè Ricorda, corpo..., e fu scritta nel 1918 - il poeta aveva 55 anni. Se ne leggono moltissime in una splendida edizione elettronica curata dall'Archivio Kavafis - quella riportata sopra ha la traduzione di Paola Maria Minucci, e il testo originale si legge a questa pagina.
Non tanto perchè l'amore si spenga, ma perchè una strana equivoca malìa aleggia in questi versi del più misterioso e affascinante poeta neoellenico del Novecento - per tali motivi pare che in realtà, in questo componimento, non accada nulla, che tutto sia fermo - in fine, pare che il tempo sia sempre stato così, bloccato in equilibrio su uno stallo senza prima né dopo.
Forse è questa l'immagine più propria che la poesia di Kavafis vuole ottenere: se nella interpretazione "esterna" dei suoi poemi si comprendono facilmente le suggestioni di una decadenza vissuta nella terra par exellence di quest'atmosfera in Occidente, Alessandria d'Egitto - la patria dell'Ellenismo che viaggiava controcorrente già con i satrapi e la Biblioteca - in quella interpretazione "interna" che si può azzardare, l'omosessualità esplicitamente coltivata e dichiarata di Kavafis si sublima in una posa, spesse volte ripetuta nei suoi versi - quella del kouros in posizione stante, muscoloso ma senza esibizione, dal sorriso enigmatico, languido nella sua forza, non femmineo ma nemmeno erculeo.
Certo, tornano infinite volte le tombe, le ispirazioni degli epitimbi bizantini, quelli dell'Antologia Palatina - come tornano pure gli amori che lì si consumano e i profumi e le luci; ma in alcuni componimenti più nascosti, torna non tanto la lascivia, la brama per un piacere che sfuggirà comunque e di cui si vuole rallentare la caduta nel retrogusto amaro, quanto un'arcaica ricerca.
Non si tratta di una vana regressio alla purezza - a cosa servirebbe, ad Alessandria d'Egitto, se non ad annacquare i lunghi caffè e gli sguardi umidi di caldo e desiderio? - quanto di rievocare, sapendolo, Polimede di Argo più che Skopas o anche Kritios. Evocare un antico veramente senza necessità di mostrare la sua forza - una linfa non soggiogata a dolcezze o effeminatezze - più che l'ambiguo mestiere di chi sa di poter scambiare luci ed ombre, levigare muscoli egli efebi, e poi mascherarli sotto la brillantezza di un capo reclinato, di un salto di danza.
Il Kavafis noto è quello che mostra il suo essere necessario posto in Alessandria; quello notevole, illumina un orizzonte più lungo, azzurrino, dove i corpi soltanto, ormai senza anima, ricordano i piaceri che hanno avuto e donato, ora che proprio un tempo inutilmente trascorso li priva forse anche della memoria; e se l'anima di una effimera coppia di amanti non rimane, è bene preservare la memoria senza inganni, senza pensare di essersi concessi al piacere - bisogna gustare anche l'amaro che il dolce lascia in fondo al palato.

sabato 17 maggio 2008

"L'uomo che non credeva in Dio" di Eugenio Scalfari: un Montaigne con barba e capelli bianchi

"Il fondamento della morale, per dirla tutta, è una gran buffa e complicata questione, una spina acuminata e sottile che ci punge dentro e ci obbliga a fare i conti con la nostra passeggera felicità".
Mi unisco al fitto novero di quelli che hanno letto con interesse e piacere l'ultimo volume di Eugenio Scalfari, il fondatore di "Repubblica" ma anche e soprattutto il filosofo e teologo cresciuto alla scuola di Montaigne. Difatti quella di "pensare", per quel che traspare e per quel che dichiara nei tredici capitoli - che si leggono con sempre più vivo interesse, e fin da subito - è una sorta di necessità percepita nell'infanzia e mai più dismessa, perchè mai più soddisfatta e sempre imperante.
Allora è la "non-professionalità" del filosofo e del teologo Scalfari a rendere, se possibile, il suo discorso più interessante rispetto a quanto si potrebbe leggere in un volume di teoresi, di morale o di teologia mistica: ed è Cartesio, e non Montaigne, il campione della razionalità che Scalfari racconta di aver abbracciato sin da quando era compagno di banco, al Liceo Classico di Sanremo, di Italo Calvino - l'altro razionalista sui generis - e un professore di filosofia impose, proprio per mezzo di Calvino, la lettura integrale dei testi maggiori di Cartesio; e fu l'amore e la passione per la ragione.
Eppure non è questa la cifra unica e singolare di questa "autobiografia spirituale" che è il racconto anche della storia d'Italia dal 1924 ad oggi: capita un'impressione simile nell'ultimo romanzo del padre del nouveau roman, Alain Robbe-Grillet (nato due anni prima di Scalfari, nel 1922 e morto il 18 febbraio di quest'anno), che si intitola Dans le labyrinthe (uscì per Einaudi nel 1959 con il titolo Nel labirinto ed è l'ultimo scritto prima di affiancare anche la carriera di cineasta).
Lì si legge nelle pagine iniziali una minuziosa descrizione dell'immagine lasciata da un posacenere spostato su un mobile, la vita di un oggetto che ha "liberato" l'impronta in negativo della polvere sul piano in cui si è trovato a vivere; nel libro di Scalfari la sapienza è quella di non intervenire pesantemente, di non nascondere nulla ma facendo emergere il racconto come fosse il negativo di una polvere che si è posata sul piano della sua vita.
Nulla di patetico, né di vagamente ciranesco - l'opera di Rostand si chiude appunto con una immagine simile, che riguarda la polvere e viene affidata a De Guiche -: il fatto è che Scalfari dice senza remore "Adesso che sono vecchio ho altri pensieri".
Fra le tante recensioni dell'opera preferisco rimandare a quella neutra dell'editore, Einaudi, che si legge a questa pagina.

sabato 10 maggio 2008

"Desine meque tuis incendere teque querellis:/ Italiam non sponte sequor.": una musica che incendia

Desine meque tuis incendere teque querellis:
Italiam non sponte sequor.

Smettila, dunque, coi pianti di ferire a fuoco te e me:
Non vado in Italia da me.


Una vecchia norma per l'ortoepia - la corretta pronuncia - dell'esametro latino, è quella di far sentire un accento per ogni arsi del piede metrico...
Già a sentire una definizione del genere, si perderebbe la voglia di leggere e ruminare fra sé e sé Virgilio, di cercare di capire come in questo Enea che si allontana da Didone, e pare sospirare con i suoi accenti, e rallentare la corsa delle sue parole, si intraveda già tanto di quegli eroi di Torquato Tasso nella sua Gerusalemme liberata, tanto di quel languore di Giambattista Marino nell'Adone, senza per questo scadere in una loquacità priva di turgore spirituale e solo brava ad imitare la sofferenza - più un cardellino in gara con un liuto, quindi, nell'Adone, dove questo è un episodio celeberrimo, che tanti amanti e rose e spine e onde fra i capelli e fulgori fra le labbra di rubino.
Insomma, in questo Virgilio, potremmo sentire, anche nella cadenza lenta delle sillabe, anche "Il portiere caduto alla difesa, ultima, vana" - quell'epica piccola, quella piccola Iliade che Umberto Saba ha donato al Novecento con le sue Cinque poesie per il gioco del pallone.
Ma per sentire un po' più veramente quell'esametro e mezzo dell'Eneide - che avrebbe questa scansione, Désine méque tuís | incéndere téque queréllis:/ Ítaliám non spónte sequór - dovremmo pensare forse al vecchio prosodiare degli avvocati nelle arringhe, a qualche brano scanzonato e irrisorio di Vittorio De Sica; al salire e scendere musicale degli accenti, che il nostro semplice rafforzamento tonico non fa che ridurre ancor più rispetto al presunto vero modo di pronunciare degli antichi Indoeuropei, Latini compresi.
Allora potremmo pure ricordarci - sentendo la musica fra le parole, sentendo lo scontro sciabordante della chiglia della nave in mare - di un verso di Apollonio Rodio nelle Argonautiche, quello proprio all'inizio del poema, quando al principio ancora del "Catalogo degli eroi" che accompagneranno Giasone nel suo viaggio, si dice

ὡς οὐκ ἀνθρώποισι κακὸν μήκιστον ἐπαυρεῖν

nessun male è così lunge dagli uomini, che non l'incontrino


e anche qui si sente un'irruzione, e poi un subito frenare delle sillabe - hṓs oúk anthrṓpoisí kakòn | mḗkiston epauréîn - che di sicuro ha ispirato, scritto qualche secolo prima, Virgilio e il suo Enea, almeno per una musica che ferisce col fuoco...


venerdì 9 maggio 2008

"Signatura rerum. Sul metodo" di Giorgio Agamben

Il Novecento è stato il secolo in cui, più degli altri, non solo si è meditato sul metodo, ma anche e forse in maniera più cospicua, sul metodo da applicare - o meno - al "metodo" stesso; producendo quindi delle metodologie. Per fare solo qualche accenno sparso ed episodico - anche se illuminante - si va dal "Metodo delle scienze storico-sociali" di Max Weber, che uscì postumo nel 1922, al caposaldo riconosciuto in modo unanime dell'ermeneutica filosofica del secolo scorso, le due tappe di "Verità e Metodo" uscite nel 1960 e negli anni successivi dalla penna e dalla riflessione di Hans Georg Gadamer. Ma si passa per la filosofia della scienza di Imre Lakatos e il suo capolavoro del 1970, "La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifica", per approdare perfino ad un "anarchismo metodologico" come quello teorizzato da Paul Feyerabend nel suo "Contro il metodo", che uscì nel 1975.
Non è certo un resoconto completo di quel che possa sorgere esaminando la storia culturale del secolo passato nei campi più disparati sotto la voce "metodo": ma questo piccolo elenco potrebbe indicare un breve retroterra che attornia i tre saggi di Giorgio Agamben che sono raccolti in questo suo ultimo volume, che hanno un precedente di riferimento che viene dalle scienze filosofiche e sociali come quello di Michel Foucault, che nel 1969 pubblicò il "L'archeologia del sapere e la riflessione sul linguaggio".
In 110 densissime pagine, Agamben parte dal saggio "Che cos'è un paradigma?", che fa incontrare e scontrare Platone con Kuhn e Foucault, passa al capitolo "Teoria delle segnature", che ispira il titolo complessivo riferendosi alla signatura rerum di Paracelso e di Jakob Böhme, e arriva nuovamente a Foucalt nell'ultimo saggio intitolato "Archeologia filosofica".
Ricchissimo di intelligenza delle cose, di spunti e di confronti, questo volume sul metodo si cala prontamente nel metodo per portarne alla luce gli elementi nascosti, quelli che divengono dannosi se non sono chiaramente presi in considerazione ed esaminati.
Difatti, a pensare cosa sia, almeno etimologicamente, il metodo, si vede che esso viene dal termine greco methodos, letteralmente "tragitto, percorso", nel senso di "via che porta oltre".
Ma se metà, "oltre", e hodos, "via, cammino", significano questo, nulla toglie che si possa pensare al termine "metodo" come al termine "metafisica" - l'altro grande caposaldo del pensiero occidentale: allora quel tragitto, è il passaggio che può portare "oltre la via", "oltre la natura" del metodo stesso, dunque al di là delle imposizioni, inevitabili ma non incoercibili.
Quanto questo possa esser vero in un ambito intrigante come quello della riflessione filosofica, è fuor di dubbio; quanto invece sia necessario e imprescindibile - e il libro si presta anche ad una lettura trasversale di questo tipo - per la letteratura e la teoria che la accompagna, è importante sottolineare, per comprendere l'aspetto stimolante della meditazione del pensatore.
Una scheda sul volume di Giorgio Agamben si trova a questa pagina dell'editore, che è Bollati Boringhieri.

domenica 4 maggio 2008

"La cosa più importante è adesso dimostrare che si tratta di un uomo"

Le parole di Rudolf Meyer, che è il difensore di Joseph Fritzl - l'austriaco che ha avuto sette figli dall'incesto con la figlia Elizabeth, tenuta segregata in cantina per quasi un quarto di secolo assieme alla crescente famiglia - suonano come una sorta di conferma di come la letteratura e la filosofia possano anticipare, forse comprendere, il Male.
A sentire queste parole viene da pensare ad un uso strumentale del concetto di "banalità del male", che è stato uno degli artifici interpretativi di Hannah Arendt per avvicinare e comprendere lo sterminio di massa degli Ebrei nella Seconda Guerra Mondiale e le torture sistematiche dentro i campi di concentramento - e per comprendere le reazioni a processo degli ufficiali che avevano perpetrato quel male.
Ma ancor più viene da pensare al caso Moosburger raccontato da Robert Musil nella prima parte de L'uomo senza qualità: non si comprende la ferocia con cui l'imputato accoltella le sue vittime, ma nemmeno quella che dimostra nei confronti di sé stesso durante gli interrogatori e le deposizioni - anzi pare che ve ne sia più in questi ultimi casi, che non durante gli omicidi.
Il romanziere indaga i pensieri del protagonista e quelli dell'opinione pubblica austriaca "imperial-regia" di Kakania, e quando torna a parlare di Moosburger descrivendo anche le reazioni di una amante del protagonista, Bonadea, pure in questa occasione mostra l'insensatezza del processo, la strampalata e tragica difesa di un'idea di colpevolezza fatta dall'imputato stesso per sé medesimo, l'inutilità del patibolo perchè inadeguato a colpire quel male.
Fritzl pare ancor più banale di Moosburger, meno cupamente fiero - tanto più crudele.
Eppure la letteratura e la filosofia riescono a dare il segno di come non sia - seguendo Goethe - il colore nero a tingere l'oscurità, quanto la mancanza di luce.

sabato 3 maggio 2008

L'Avvocato della lingua italiana

"Signor Presidente, Le parlo brevemente, soprattutto come superstite di quell’esiguo gruppo di accademici che negli anni postbellici, con l’animosa guida di Giacomo Devoto, vide restituita all’Accademia l’impresa del Vocabolario della lingua italiana, soppressa nel 1923, e ampliate la struttura e l’efficienza della secolare istituzione."
Con queste parole Giovanni Nencioni nel 2002 salutava Carlo Azeglio Ciampi in visita all'Accademia della Crusca: con garbo parlando di un figlio che gli sarebbe - com'è logico, ma in questo caso fortunatamente - sopravvissuto, vale a dire il Vocabolario della lingua italiana.
Adesso Giovanni Nencioni, che si è spento a 96 anni stamane, magari si occuperà del Vocabolario lavorando a progetti e schedature per una ulteriore "custodia" della lingua italiana, lui che era per formazione e studi, avvocato, e si era laureato con Piero Calamandrei studiando diritto processuale.
E difenderà ancora Manzoni e Verga, o Dante e Pirandello (suoi autori amati): quasi come l'altro Avvocato che l'Italia del Novecento ha avuto, Gianni Agnelli, avrebbe difeso la Fiat e avrebbe parlato, in un ultimo discorso, della Ferrari - la figlia che sarebbe sopravvissuta, quella più bisognosa di cure perchè oggetto prezioso fra i beni di famiglia.
Come le parole del Vocabolario, quelle che viaggiano prima e dopo di noi, ma alle quali lasciamo un segno per l'averle amate, baciate, masticate - o magari intraviste solo una volta nella vita, ombre perdute.

giovedì 1 maggio 2008

La menzogna e la soddisfazione del desiderio

Come fin dall'antichità vi sono state artes che cercavano di chiudere il limite di molti (forse, tutti) gli argomenti humaniores, e si è passati quindi dalle arti della parola a quelle della cucina fino a quelle della guerra e a quelle della bellezza ornata dal trucco, così i secoli a noi più vicini ci hanno lasciato nuove e ardite arti - perfino contro l'arte stessa, intesa come techne, modalità di raggiungere uno scopo in maniera ordinata e riproducibile.
Se la retorica è stata assieme alla guerra quella più affrontata, il barocco forse ha portato alle estreme conseguenze un piano logicamente ineccepibile che veniva dai Sofisti: chiudere e aprire il piano della menzogna, dedicare al "nulla contro la realtà" il valore del pieno di una realtà possibile - un mondo possibile, direbbero oggi i semiologi - come se ci si trovasse davanti ad hegeliani avant lettre che spiegano che Tutto ciò che è razionale è reale.
Eppure la menzogna, banalmente - non pretendo chissà quali profondità di pensiero - si impone nella strenuità della sua difesa, come altro possibile; se raggiunge - ovviamente con l'arte - livelli di grande coerenza architettonica, si impone come variante logica, costruzione del mondo. Ma quel mondo non è abitato da nessuno, se non dal desiderio.
Allora è il coinvolgimento nel desiderio il punto di valore e forza di una buona menzogna: nulla di cinico, nulla più di cattivo (nel senso di prigioniero di un modo di ragionare) nei confronti degli ignari - questi, se non sono scaltriti, rimangono impermeabili alla menzogna creativa: passa loro accanto, magari vive dentro di loro, ma solo come una verità spenta, immiserita, non reattiva.
Coinvolgere nel desiderio si può quando sia possibile scandagliare il potere del sogno: non tanto utopia, costruzione anche "politica"; ma soprattutto spiegamento di altre costruzioni che non escono dallo spazio dello spirito.
Questo sarebbe un tardivo e inefficace elogio della letterarietà della menzogna, ma vorrebbe arrivare anche a lambire un elogio dell'immaginazione mistica di cui parlava Henri Corbin, e toccare anche la creatività matematica citata spesso da Jean Dieudonné, e una teoria della metafora come "conoscenza orizzontale del mondo" che viene da Emanuele Tesauro e arriva fino ai modelli reticolari della conoscenza che adesso informano di sé (in vario modo), le "ontologie" di cui si nutre sempre più il Web 2.0 e il già annunciato 3.0, ancor più semantico, ancor più desiderabile e forse ancor più menzognero.